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1.Lo Stoicismo romano


L’ultima grande fioritura della filosofia del Portico ebbe luogo a Roma in età imperiale , dove assunse caratteri peculiari e specifici, tanto che gli storici della filosofia concordemente usano il termine Neostoicismo per designarla. È da rilevare, a questo proposito, che lo Stoicismo fu la filosofia che a Roma annoverò sempre il maggior numero di seguaci e di ammiratori, sia nel periodo repubblicano sia nel periodo imperiale. Anzi, la scomparsa della Repubblica, con la conseguente perdita della libertà del cittadino, rafforzò notevolmente negli spiriti più sensibili l’interesse per gli studi in generale e per la filosofia stoica in modo particolare.
Ora, proprio le caratteristiche generali dello spirito romano, il quale sentiva come veramente essenziali solo i problemi pratici e non quelli puramente teoretici, insieme alle caratteristiche particolari del momento storico di cui parliamo, ci permettono agevolmente di spiegare la particolare curvatura che subisce la problematica dell’ultima stagione della Stoà.
• In primo luogo, l’interesse per l’etica , già in primo piano a partire dalla Stoà di mezzo, nella Stoà romana dell’età imperiale divenne senz’altro predominante e, in alcuni pensatori, quasi esclusivo.
• L’interesse per i problemi logici e fisici si restrinse considerevolmente e la stessa teologia, che era una parte della fisica, assunse coloriture che si possono qualificare almeno esigenzialmente spiritualistiche.
• L’individuo , allentati notevolmente i legami con lo Stato e con la società, ricercò la propria perfezione nell’interiorità della coscienza , creando, così, un’atmosfera intimistica, che mai, prima di allora, si era riscontrata nella filosofia, almeno in questa misura.
• Un forte sentimento religioso fece irruzione e trasformò in modo piuttosto accentuato la temperie spirituale della vecchia Stoà. Anzi, negli scritti dei nuovi stoici ritroviamo addirittura tutta una serie di precetti che richiamano paralleli precetti evangelici, quali la comune parentela di tutti gli uomini con Dio, la fratellanza universale, la necessità del perdono, l’amore per il prossimo e perfino l’amore per coloro che ci fanno del male.
• Il Platonismo , che già aveva esercitato un certo influsso su Posidonio, ispirò non poche pagine degli stoici romani, con le sue nuove caratteristiche “medioplatoniche”. In particolare è degno di rilievo il fatto che abbia esercitato un inequivoco influsso proprio il concetto di filosofia e di vita morale come “assimilazione a Dio” e come “imitazione di Dio”.
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2.Seneca

◗ Fra naturalismo stoico e dualismo platonico


Lucio Anneo Seneca nacque in Spagna, a Cordoba, nel 4 a.C., fra la fine dell’era pagana e l’inizio dell’era cristiana. A Roma partecipò attivamente e con successo alla vita politica; condannato da Nerone al suicidio nel 65 d.C.., si diede la morte con stoica fermezza e mirabile forza d’animo.
Della ricca produzione di Seneca ci sono pervenuti: De providentia ; De constantia sapientis ; De ira ; Ad Marciam de consolatione ; De vita beata ; De otio ; De tranquillitate animi ; De brevitate vitae ; Ad Polybium de consolatione ; Ad Helviam matrem de consolatione (questi scritti si indicano anche con il titolo complessivo di Dialogorum libri ).
Oltre a questi ci sono pervenuti: De clementia ; De beneficiis ; Naturales quaestiones (in 8 libri); l’imponente raccolta delle Lettere a Lucilio (124 lettere divise in 20 libri); e alcune tragedie (destinate, più che alla rappresentazione, alla lettura) nei cui personaggi si incarna l’etica di Seneca ( Hercules furens ; Troades ; Phoenissae ; Medea ; Phaedra ; Oedipus ; Agamemnon ; Thyestes ; Hercules Oetaeus ).
Seneca è uno degli esponenti della Stoà in cui sono maggiormente evidenti l’oscillazione circa il pensiero di Dio, la tendenza a uscire dal panteismo e le istanze spiritualistiche di cui abbiamo già sopra parlato, ispirate da un accentuato afflato religioso. In molti passi, per la verità, Seneca sembra perfettamente allineato con il dogma panteistico della Stoà: Dio è l’immanente Provvidenza, è l’intrinseca Ragione che plasma la materia, è la Natura, il Fato. Tuttavia, dove maggiormente la riflessione di Seneca è originale, ossia nel cogliere e nell’interpretare il sentimento del divino, il suo Dio assume tratti spirituali e perfino personali , che sporgono al di fuori dei quadri dell’ontologia stoica.
Un fenomeno analogo si riscontra anche nella psicologia. Seneca sottolinea il dualismo tra anima e corpo con accenti che ricordano il Fedone platonico. Il corpo è peso, è vincolo, è catena, è carcere dell’anima; l’anima è il vero uomo , che dal corpo tende a liberarsi per raggiungere la sua purezza. È evidente che queste concezioni incrinano le affermazioni stoiche che l’anima è corpo, che è sostanza pneumatica e alito sottile, affermazioni che Seneca pur ribadisce. La verità è che, a livello intuitivo, Seneca si porta oltre il materialismo stoico; ma poi, mancandogli le categorie ontologiche per fondare e sviluppare tali intuizioni, le lascia sospese.

Sempre sulla base dell’analisi psicologica in cui è maestro, Seneca scopre la coscienza ( conscientia ) come forza spirituale e morale fondamentale dell’uomo e la mette in [pag.373] primo piano come, prima di lui, nessuno, nell’ambito della filosofia greca e romana, aveva fatto. La coscienza è la consapevolezza del bene e del male , originaria e ineliminabile. A essa nessuno può nascondersi, perché l’uomo non può nascondersi a se medesimo. Il malvagio può sfuggire alla punizione della legge, ma non alla coscienza che inesorabilmente rimorde e che è il giudice più implacabile.
Come abbiamo visto, la Stoà ha insistito sul fatto che la disposizione d’animo determina la moralità dell’azione; tuttavia essa deriva e si risolve, conformemente alla tendenza fondamentalmente intellettualistica di tutta l’etica greca, nella “conoscenza” che è propria del saggio. Seneca va oltre e parla espressamente di “volontà” e anzi, per la prima volta nel pensiero classico, egli parla della volontà come di una facoltà distinta dalla conoscenza . In questa scoperta, Seneca fu aiutato, in maniera determinante, dalla lingua latina: il greco non ha infatti un termine che corrisponda perfettamente a voluntas . Tuttavia, nemmeno in questo caso ha saputo dare adeguato fondamento teoretico a tale scoperta.
Un altro tratto differenzia Seneca dall’antica Stoà, così come dalla totalità dei filosofi greci: l’accentuato senso del peccato e della colpa, di cui si macchia ogni uomo. L’uomo è strutturalmente peccatore , dice il nostro filosofo, e questa, indubbiamente, è un’affermazione che si pone in netta antitesi rispetto alla pretesa di perfezione che lo stoico antico, dogmaticamente, attribuiva al suo saggio. Ma – pensa invece Seneca – se qualcuno non peccasse mai, costui non sarebbe uomo: il saggio stesso, in quanto rimane uomo, non può non peccare . Seneca, nell’ambito della Stoà, è stato forse il pensatore che più accentuatamente ha avversato l’istituzione della schiavitù e le distinzioni sociali. Il vero valore e la vera nobiltà sono dati solamente dalla virtù, e la virtù è a disposizione di tutti indistintamente : essa vuole unicamente l’“uomo nudo”.
La nobiltà e la schiavitù sociali dipendono dalla fortuna, e tutti annoverano fra i più antichi antenati tanto servi quanto nobili; all’origine, tutti gli uomini erano uguali. L’unica nobiltà che abbia senso è quella che l’uomo si costruisce nella dimensione dello spirito . Ed ecco la norma che Seneca propone per regolare il modo con cui il padrone deve comportarsi nei confronti dello schiavo e il superiore con l’inferiore: «Comportati cogli inferiori come vorresti che si comportassero con te coloro che ti sono superiori» . È una massima che si avvicina non poco allo spirito evangelico.
A fondamento del rapporto fra gli uomini in generale, Seneca pone la fratellanza e l’amore : «La natura ci produce fratelli generandoci dagli stessi elementi e destinati agli stessi fini. Essa pose in noi un sentimento di reciproco amore con cui ci ha fatti socievoli, ha dato alla vita una legge di equità e di giustizia e secondo i principi ideali della sua legge è più misera cosa offendere che essere offesi». [pag.374]

3.Epitteto

◗ Lo schiavo filosofo


Epitteto nacque da schiavi a Ierapoli, in Frigia, fra il 50 e il 60 d.C.. Poco dopo il 70 d.C.., mentre ancora era schiavo, iniziò a frequentare a Roma le lezioni di Musonio, che gli rivelarono la propria vocazione alla filosofia. Cacciato da Domiziano insieme ad altri filosofi (nell’88/89 d.C.. o nel 92/93 d.C..), lasciò l’Italia@l:Italia_ e si ritirò nella città di Nicopoli in Epiro, dove fondò una scuola che ebbe grande successo e attirò uditori da tutte le parti. La data della sua morte rimane ignota (qualcuno pensa al 138 d.C..).
Attenendosi al modello del filosofare socratico, Epitteto non scrisse nulla. Fortunatamente, frequentò le sue lezioni lo storico Flavio_Arriano@a:Flavio_Arriano, il quale (forse nel secondo decennio del II secolo d.C..) ebbe la felice idea di porre per iscritto le parole del maestro. Nacquero così le Diatribe , pare in otto libri, di cui quattro ci sono pervenuti. Arriano@a:Flavio_Arriano compilò anche un Manuale ( Encheiridion ), estraendo dalle Diatribe le massime più significative. [pag.375]

◗ Il concetto di proairesi


L’asse portante della filosofia di Epitteto consiste nella ripartizione delle cose in due classi : • quelle che sono in nostro potere (ossia opinioni, desideri, impulsi e repulsioni); • quelle che non sono in nostro potere (ossia tutte quelle cose che non sono nostre attività, come ad esempio, corpo, parenti, averi, reputazione e simili).
Il bene e il male albergano esclusivamente nella classe delle cose che sono in nostro potere, appunto perché esse dipendono dalla nostra volontà e non nell’altra, perché le cose che non sono in nostro potere non dipendono dalla nostra volontà.
In questa direzione non c’è più posto per compromessi con gli “indifferenti” e con le “cose intermedie”; la scelta, quindi, è radicale, perentoria e ultimativa: le due classi di cose non possono essere perseguite insieme, perché le une comportano la perdita delle altre, e viceversa. Tutte le difficoltà della vita e gli errori che si commettono dipendono dal non tener conto di questa fondamentale distinzione. Chi sceglie la seconda classe di cose, ossia la vita fisica, il corpo e i suoi piaceri, gli averi, non solo va incontro a delusioni e a contrarietà, ma perde addirittura la sua libertà e diventa schiavo di quelle cose e di quegli uomini che costituiscono o dispensano quei beni e quei vantaggi materiali. Chi invece respinge in blocco le cose che non dipendono da noi e si concentra su quelle che dipendono da noi, diventa veramente libero, perché ha a che fare con attività che sono nostre, vive la vita che vuole e, di conseguenza, raggiunge la contentezza spirituale, la pace dell’anima.
La distinzione delle cose comporta una precisa presa di posizione morale di fondo da parte dell’uomo che viene così a determinare la base del proprio agire. Epitteto chiama questo atto prohairesis (pre-scelta, pre-decisione): indica quella decisione che l’uomo prende una volta per tutte e alla quale dovrà mantenersi fedele anche nelle scelte particolari. La proairesi costituisce pertanto l’essenza morale dell’uomo.
La scelta di fondo potrebbe sembrare, al lettore moderno, un atto della volontà; se così fosse, l’etica di Epitteto sarebbe un’etica volontaristica. Ma così non è: la proairesi è un atto di ragione, un giudizio conoscitivo. È una riformulazione dell’antico intellettualismo socratico. Del resto, Epitteto ribadisce i capisaldi di questo intellettualismo nella maniera più esplicita.

• Vi è nell’uomo un desiderio del bene che non si può sradicare: l’uomo vuole sempre e solo ciò che è o gli appare bene.
• L’uomo non può quindi mai volere il male. Se lo vuole, è solo perché a lui appare in sembianza di bene.
• Poiché bene e male sono strutturalmente legati alle rappresentazioni, basterà mostrare a colui che persegue il male – che gli appare erroneamente in veste di bene – che si sbaglia, ed egli muterà immediatamente comportamento.
Insomma: la conoscenza del bene comporta la necessaria volizione di esso. E ciò significa che non si può conoscere il bene senza volerlo.
Ma chi ci garantisce che il bene sia davvero solo nella scelta morale di [pag.376] fondo e non nelle cose esterne? Epitteto risponde con un’argomentazione metafisico-teologica molto precisa: Dio è intelligenza.
Dio è intelligenza, scienza e bene . Dio è provvidenza, che si cura non solo delle cose in generale, ma di ciascuno di noi in particolare. Ubbidire al logos e fare il bene vuol quindi dire ubbidire a Dio , fare la volontà di Dio; servire Dio vuol dire, anche, lodare Dio. La libertà coincide col sottomettersi al “volere di Dio”.
Anche il tema della parentela dell’uomo con Dio , che è tema già dell’antica Stoà, assume inflessioni fortemente spiritualistiche e quasi cristiane .
Purtroppo, come abbiamo già visto verificarsi in Seneca, anche Epitteto non sa dare alle nuove istanze che solleva un adeguato fondamento ontologico. Quanto Epitteto ci dice sull’uomo (sulla “scelta di fondo”) sarebbe ben più corretto teoreticamente se collocato nell’ambito di una metafisica dualistica di tipo platonico che non collocato in quello della concezione monistico-materialistica della Stoà, e quanto egli dice di Dio supporrebbe guadagni metafisici perfino più maturi di quelli raggiunti da PlatoneAristotele a questo riguardo.

4.Marco_Aurelio


Marco_Aurelio , imperatore e filosofo romano, nacque nel 121 d.C.. Salito al trono quarantenne, nel 161, resse l’Impero fino alla morte, nel 180 d.C..
La sua opera filosofica, redatta in lingua greca, si intitola Ricordi e si costituisce di una serie di massime, sentenze e riflessioni, composte anche durante le dure campagne militari, che non avevano come fine quello della pubblicazione.
Marco_Aurelio è l’ultima figura di rilievo che il movimento spirituale della Stoà annoveri. Con lui lo Stoicismo sale sul trono del più grande impero e si conclude. Anche in Marco_Aurelio sono ben visibili tendenze eclettiche. Egli non esita, come già Seneca, ad accogliere notazioni di saggezza che vengono perfino da EpicuroEraclito del «tutto scorre», inedita nella Stoà, desunta molto probabilmente dallo scettico Enesidemo@a:Enesidemo, il quale, come vedremo, considera lo Scetticismo come la via che porta all’Eraclitismo.
Fra gli esponenti della nuova Stoà Marco_Aurelio è quello che maggiormente restringe la filosofia alla problematica morale, colorandola, non meno di Seneca e di Epitteto, di forti tinte religiose. Per mezzo millennio la Stoà aveva aiutato gli uomini a vivere con la sua dottrina [pag.377] morale, ben più che con la sua logica o con la sua fisica. Queste erano andate via via estenuandosi e assottigliandosi e perfino sclerotizzandosi; quella, invece, aveva continuato a rivivere e a rifiorire, perché aveva continuato a rispondere a effettivi bisogni degli uomini, immutati pur nel mutare dei tempi.

◗ La nullità delle cose


Una delle caratteristiche del pensiero di Marco_Aurelio è l’insistenza con cui viene espressa e ribadita la caducità delle cose , la loro monotonia, la loro insignificanza e la loro sostanziale nullità. Questo sentimento delle cose è ormai decisamente distante dal pensiero greco, sia dell’età classica sia del primo Ellenismo. Il mondo antico sta dissolvendosi e il Cristianesimo sta inesorabilmente conquistando gli animi. È ormai in atto la più grande rivoluzione spirituale che sta svuotando tutte quante le cose del loro antico significato. Ed è questo rivolgimento, appunto, che dà all’uomo il senso della nullità del tutto.
Ma Marco_Aurelio è profondamente convinto che l’antico verbo stoico sia pur sempre in grado di mostrare che le cose e la vita, al di là della loro apparente nullità, abbiano un preciso senso.
Sul piano ontologico e cosmologico è la visione panteistica dell’Uno-tutto , sorgente e foce di ogni cosa, a riscattare le singole esistenze dal non senso e dalla vanità.
Sul piano etico e antropologico, è il dovere morale che dà senso al vivere . A questo proposito Marco_Aurelio finisce, in più di un punto, con l’affinare alcuni concetti dell’etica stoica fino ad avvicinarsi a concetti evangelici, anche se su basi differenti. Marco_Aurelio, poi, non esita a infrangere l’ortodossia stoica, pur di garantire la distinzione fra l’uomo e le altre cose e la precisa tangenza dell’uomo con gli dei.

◗ Una nuova antropologia


La Stoà, come sappiamo, aveva distinto, nell’uomo, il corpo dall’anima e aveva dato a questa una netta preminenza. Tuttavia la distinzione non poté mai essere radicale, perché l’anima restava pur sempre un ente materiale, un soffio caldo, ossia pneuma, e, quindi, restava della stessa natura ontologica del corpo.
Marco_Aurelio rompe questo schema, assumendo tre principi come costitutivi dell’uomo:
• il corpo, che è carne;
• l’anima, che è soffio o pneuma;
• e, superiore all’anima stessa, l’intelletto o mente ( nous ). [pag.378]

Mentre la Stoà identificava l’egemonico o principio dirigente dell’uomo (l’intelligenza) con la parte più alta dell’anima, Marco_Aurelio lo pone fuori dell’anima e lo identifica con il nous , con l’intelletto.
In base a quanto abbiamo detto sopra, ben si comprende come, per Marco_Aurelio, l’anima intellettiva costituisca il nostro vero io , il rifugio sicuro in cui dobbiamo ritirarci per difenderci da qualsiasi pericolo e per trovare le energie necessarie per vivere una vita degna di uomini.
L’egemonico, cioè l’anima intellettiva, che è il nostro Demone, è invincibile, se vuole. Nulla lo può ostacolare, nulla lo può piegare, nulla lo può colpire, né fuoco né ferro, né violenza di sorta, se esso non vuole. Solo il giudizio che esso emette sulle cose lo può colpire; ma allora non sono le cose che lo affliggono, ma le false opinioni che egli stesso ha prodotto. Serbato retto e incorrotto, il nous è il rifugio che dà all’uomo la pace assoluta. Già la vecchia Stoà aveva sottolineato il comune vincolo che lega tutti gli uomini, ma solo il Neostoicismo romano innalzò questo vincolo al precetto dell’amore. E in questa direzione Marco_Aurelio si spinse senza riserve: «E ancora è dell’anima razionale amare il prossimo, il che è verità e umiltà».
Anche il sentimento religioso in Marco_Aurelio va molto più in là di quello della vecchia Stoà. «Rendere grazie agli dei dal profondo del cuore», «avere sempre nella mente dio», «invocare gli dei», «vivere con gli dei», sono significative espressioni che ricorrono nei Ricordi , cariche di nuove valenze. Ma più di tutti indicativo, al riguardo, è il seguente pensiero: «Gli dei, o non possono nulla, o possono qualcosa.
Se non possono, perché innalzi loro preghiere? Se possono, perché non li preghi di concederti di non temere né desiderare alcuna di queste cose, di non rammaricarti per alcuna di esse, anziché di ottenerla o di evitarla? Perché, comunque, se possono prestar aiuto agli uomini, debbono prestarlo pure in questo. Forse dirai “Gli dei mi hanno dato facoltà di agire a questo riguardo”. Allora non è meglio che tu ti giovi liberamente di ciò che è in tuo potere, invece di affannarti servilmente e vilmente per ciò che in tuo potere non è? E poi chi t’ha detto che gli dei non ci coadiuvano anche in ciò che è in potere nostro? Comincia a pregarli in questo senso e vedrai».
Con Marco_Aurelio lo Stoicismo celebrò indubbiamente il suo più alto trionfo, in quanto, come è stato giustamente rilevato, «un imperatore, il sovrano di tutto il mondo conosciuto, si professò stoico e operò da stoico». Ma, subito dopo Marco_Aurelio, lo Stoicismo iniziò il suo fatale declino, e, poche generazioni dopo, nel III secolo d.C., addirittura scomparve come corrente filosofica autonoma.