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1.La rinascita del Pirronismo e il Neoscetticismo

◗ Enesidemo e il ripensamento del Pirronismo


La svolta eclettico-dogmatica dell’Accademia e soprattutto le prese di posizione stoicheggianti di Antioco costrinsero alcuni pensatori, ancora convinti della validità delle istanze scettiche fatte valere da Arcesilao e da Carneade, a denunciare il nuovo dogmatismo e a un ripensamento ancor più radicale delle istanze scettiche. Per questo motivo Enesidemo di Cnosso aprì ad Alessandria una nuova Scuola scettica, scegliendo come punto di riferimento non già un personaggio, legato all’Accademia, ormai compromessa definitivamente, ma un pensatore che, riletto in particolare modo, poteva meglio di tutti ispirare e alimentare il nuovo Scetticismo. In Pirrone di Elide fu trovato questo modello e i Ragionamenti pirroniani scritti da Enesidemo divennero il manifesto del nuovo movimento. L’opera, con il suo eloquente programma innovatore, suona come una sfida. Tutti gli elementi a nostra disposizione parrebbero suggerire, come data di composizione dello scritto, gli anni intorno al 43 a.C., subito dopo la morte di Cicerone.
La tesi di base di Enesidemo è che “ciascuna cosa non è più questo che quello”: ciò significava la negazione della validità dei principi di identità, di non contraddizione e del terzo escluso. Implicava quindi la negazione della sostanza e della stabilità nell’essere delle cose e, dunque, la loro totale indeterminazione o, come ribadì anche Enesidemo, il loro “disordine” e la loro “confusione”.
È questa appunto la condizione delle cose che, in modo programmatico, Enesidemo cercò di far emergere mostrando, in primo luogo, come all’apparente forza persuasiva delle cose fosse sempre possibile contrapporre considerazioni dotate di uguale grado di credibilità, che annullavano (o almeno controbilanciavano in senso opposto) quella apparente forza persuasiva. A questo scopo egli compose quella che noi moderni potremmo chiamare la tavola delle supreme categorie del dubbio e che gli antichi chiamavano i tropi o “modi” che portano alla sospensione del giudizio.
Ecco la tavola di questi “tropi”, divenuta molto celebre.
1) I vari esseri viventi hanno costituzioni dei sensi differenti, che comportano sensazioni che contrastano fra loro.
2) Ma anche se ci limitiamo ai soli uomini, notiamo fra loro diversità tali nel corpo e in ciò che si chiama anima da comportare diversità radicali anche nelle sensazioni, nei pensieri, nei sentimenti e negli atteggiamenti pratici.
3) Perfino nel singolo uomo è diversa la struttura dei singoli sensi, al punto da comportare sensazioni fra loro in contrasto. [pag.389]
4) Sempre nel singolo uomo sono assai mutevoli le disposizioni, gli stati d’animo e le situazioni e, quindi, le relative rappresentazioni.
5) A seconda che abbiano educazione diversa o appartengano a popoli diversi, gli uomini hanno opinioni diverse su tutto (valori morali, dei, leggi, ecc.).
6) Non esiste nessuna cosa che appaia nella sua purezza, perché tutto è mescolato con il resto e, di conseguenza, ne risulta condizionata la nostra rappresentazione.
7) Le distanze e le posizioni in cui si trovano gli oggetti condizionano le rappresentazioni che ne abbiamo.
8) Variano gli effetti che le cose producono, a seconda della loro quantità.
9) Tutte le cose sono colte da noi in relazione con altre, e mai di per sé.
10) I fenomeni, a seconda della loro frequenza o della rarità con cui appaiono, mutano il nostro giudizio.
Per tutti questi motivi, dunque, si impone la “sospensione del giudizio” (epoché ).
La compilazione di questa tavola non rappresenta che un primo contributo al rilancio del Pirronismo da parte di Enesidemo. Egli cercò infatti di ricostruire anche la mappa delle difficoltà che impediscono la costruzione di una scienza, e tentò di smantellare in modo sistematico le condizioni e i fondamenti che la scienza postula.
In generale, la possibilità della scienza suppone:
  • l’esistenza della verità;
  • l’esistenza delle cause (dei principi o ragioni causali);
  • la possibilità di un’inferenza metafenomenica, ossia la possibilità di intendere le cose che si vedono come segni (effetti) di cose che non si vedono (e che si debbono postulare appunto come cause necessarie per spiegare le cose che si vedono).
    Enesidemo cercò di smantellare tutti e tre questi capisaldi, soprattutto insistendo sul secondo. E per colpire alle radici la mentalità “eziologica” dei Greci, egli cercò di redigere una tavola di tropi, cioè di errori tipici in cui cade chi vuole cercare la “causa delle cose”. Con la denuncia della pretesa di trovare le cause dei fenomeni, si passa al problema dell’inferenza o, per dirla con linguaggio antico, al problema dei “segni”, al quale Enesidemo dedicò un’analisi specifica, forse la prima che sia stata fatta nell’ambito del pensiero antico. Nel momento in cui si pretende di interpretare un fenomeno come un segno, ci si pone già su un piano metafenomenico, in quanto si intende quel fenomeno come l’effetto (che appare) di una causa (che non appare), ossia si presuppone senz’altro (indebitamente) l’esistenza del nesso ontologico causa-effetto e la sua validità universale. Enesidemo dovette occuparsi a fondo anche delle idee morali, soprattutto allo scopo di smantellare le dottrine degli avversari in questo ambito. Egli negò che i concetti di bene, di male e di indifferenti (preferibili e non preferibili) rientrassero nel dominio dell’umana comprensione e della conoscenza. Criticò, inoltre, la validità delle concezioni proposte dai dogmatici relativamente alla virtù. Infine, egli stesso contestò sistematicamente la possibilità di intendere come fine la felicità, il piacere, la saggezza o alcunché di simile, opponendosi a tutte le scuole filosofiche; egli sostenne, senza mezzi termini, la non esistenza di un telos , ossia di un fine. L’unico fine, per lui, come per i precedenti scettici, poteva, semmai, essere la stessa “sospensione del giudizio” con lo stato di “imperturbabilità” a essa conseguente.

    ◗ Lo Scetticismo di Sesto_Empirico :


    Sulla storia dello Scetticismo posteriore a Enesidemo siamo scarsamente informati. Conosciamo bene solo Sesto_Empirico (di cui ci sono giunte le opere principali), che visse nella seconda metà del II secolo d.C. e morì forse agli inizi del III secolo. Non sappiamo dove abbia insegnato, anche se sembra che già con il maestro di Sesto : la scuola si fosse spostata da Alessandria. Oltre agli Schizzi pirroniani, ci sono pervenute altre due opere (Contro i [pag.392] matematici, in sei libri, e Contro i dogmatici, in cinque libri) comunemente citate col titolo unitario Contro i matematici (“matematici” sono gli uomini che professano arti e scienze) e con la numerazione progressiva dei libri da uno a undici.
    Il fenomenismo di Sesto_Empirico : risulta ormai formulato in termini chiaramente dualistici: il fenomeno diventa l’impressione o l’affezione sensibile del soggetto e, come tale, viene contrapposto all’oggetto, alla “cosa esterna”, ossia alla cosa che è altra dal soggetto, e che viene presupposta essere causa dell’affezione sensibile del soggetto stesso. Si può così affermare che, mentre il fenomenismo di PirroneEnesidemo:, in quanto risolveva la realtà nel suo apparire, era assoluto e quindi metafisico, quello di Sesto_Empirico : era, invece, di carattere squisitamente empirico e antimetafisico. Per Sesto : il fenomeno, come mera affezione del soggetto, non risolve in sé tutta la realtà, ma lascia fuori di sé l’“oggetto esterno”, il quale viene dichiarato, se non inconoscibile di diritto (affermazione, questa, che sarebbe una forma di dogmatismo negativo), per lo meno non conosciuto di fatto.
    Sesto : ammette la liceità del fatto che lo scettico assenta ad alcune cose, vale a dire alle affezioni legate alle rappresentazioni sensoriali; si tratta, cioè, di un assenso puramente empirico e, come tale, non dogmatico.
    La fusione delle istanze dello Scetticismo con quelle della medicina empirica comportò, anche nell’ambito dell’etica, un notevole distacco dalle posizioni dell’originario Pirronismo. Sesto, infatti, costruisce una specie di etica del senso comune, elementarissima e volutamente primitiva.
    Il vivere secondo l’esperienza comune e secondo la “consuetudine” è possibile, secondo Sesto, conformandoci a queste quattro regole elementari:
    seguire le indicazioni della natura ;
    seguire gli impulsi delle nostre affezioni che ci spingono, ad esempio, a mangiare quando proviamo fame e a bere quando sentiamo sete;
    rispettare le leggi, i costumi e il codice morale del proprio paese ;
    • non restare inerti, ma esercitare un’arte.

    Lo Scetticismo empirico, per conseguenza, predica non l’apatia, ma la metriopatia, ossia la moderazione delle affezioni che si provano di necessità. Anche lo scettico soffre fame, freddo e altre simili affezioni; ma, rifiutandosi di giudicarle mali oggettivi, mali per natura, egli limita il turbamento che da tali affezioni deriva. Che lo scettico debba essere assolutamente impassibile è idea che, proprio sulla base della rivalutata esperienza, Sesto non può più prendere in considerazione. Inoltre, la rivalutazione della vita comune comporta anche una precisa rivalutazione dell’utile. Il fine per cui si coltivano le arti (il coltivare le arti – si ricordi – è il quarto precetto dell’etica empirica di Sesto ) è espressamente indicato nell’“utile della vita”.
    Infine, è degno di nota il fatto che il raggiungimento dell’imperturbabilità, ossia dell’atarassia, sia presentato da Sesto quasi come la casuale conseguenza della rinuncia dello scettico a giudicare intorno alla verità, ossia come la casuale e inattesa conseguenza della sospensione del giudizio. Scrisse Sesto : «Gli Scettici speravano di conseguire l’imperturbabilità dirimendo la disuguaglianza che c’è tra i dati del senso e quelli della ragione; ma, non potendo riuscirvi, sospesero il giudizio, e a questa sospensione, come per caso, tenne dietro l’imperturbabilità, quale l’ombra al corpo». Con Sesto_Empirico lo Scetticismo insieme al proprio trionfo celebra anche la propria distruzione.
    Ma, distruggendo se stesso, non ha distrutto la filosofia antica, che presenta ancora un tratto di gloriosa storia dopo di esso. Esso ha distrutto una certa filosofia, o, meglio, quella mentalità dogmatica che era stata creata dai grandi sistemi ellenistici, soprattutto dal sistema stoico. Ed è molto indicativo il fatto che lo Scetticismo, nelle sue varie forme, nasca, si sviluppi e muoia in sincronia con il nascere, lo svilupparsi e il morire appunto dei grandi sistemi ellenistici. Dopo Sesto la filosofia riprende il cammino verso altre mete. [pag.393]

    2.La rinascita dell’Aristotelismo

    ◗ L’edizione del Corpus Aristotelicum fatta da Andronico


    Abbiamo già accennato alle romanzesche vicende subite dalle opere esoteriche di Aristotele, che dovevano servire solo all’interno della scuola. Queste opere restarono patrimonio della biblioteca del Peripato solo fino alla morte di Teofrasto che stabilì che della biblioteca fosse erede Neleo. Così Neleo portò con sé gli scritti aristotelici nella sua città natale, Scepsi, nell’Asia Minore, dove, però, non vennero né sistemati né utilizzati. Di alcuni di questi scritti (o almeno di una parte di essi) erano state fatte certamente delle copie (oltre che in Atene, copie di esoterici dovevano trovarsi nella biblioteca di Alessandria e probabilmente anche a Rodi, nella patria del peripatetico Eudemo ), ma esse dovettero restare lettera morta, dato che non risulta che siano state lette, studiate a fondo e assimilate da nessuno dei filosofi dell’età ellenistica.
    La riesumazione degli esoterici aristotelici fu opera di Apellicone, il quale procedette sì alla loro pubblicazione, ma in modo assai scorretto, cosicché essi restarono di fatto poco comprensibili. I preziosi manoscritti di Aristotele furono poi confiscati da Silla e portati a Roma, dove il grammatico Tirannione si accinse a un sistematico lavoro di riordinamento rimasto però incompiuto. Alcune copie di opere esoteriche furono messe in circolazione a Roma a opera di librai, ma si trattò, ancora una volta, di copie assai scorrette, commissionate solamente a scopo di lucro da amanuensi maldestri. L’edizione sistematica degli scritti di Aristotele fu opera di Andronico. Andronico di Rodi (nel ventennio successivo alla morte di Cicerone) il quale compilò anche i cataloghi ragionati, compiendo quel lavoro che doveva costituire l’indispensabile premessa nonché il fondamento per la rinascita dell’Aristotelismo. Andronico non si limitò a fornire una lezione intellegibile dei testi, ma si preoccupò anche di raggruppare quegli scritti che trattavano la medesima materia e di riordinarli sulla base, appunto, del loro contenuto, nella maniera più organica possibile. Congiunse alcuni brevi trattati che erano più o meno autonomi (e che avevano anche un proprio titolo) a opere di più ampia dimensione dedicate ai medesimi argomenti, talora attribuendo nuovi titoli ai testi così costituiti. È assai probabile, ad esempio, che proprio a lui risalga l’organizzazione di tutte le opere logiche in un unico corpus. In modo analogo procedette con i vari scritti di carattere fisico, metafisico, etico, politico, estetico e retorico. L’ordinamento generale e particolare che Andronico impresse al Corpus Aristotelicum restò definitivo, condizionando tutta la tradizione successiva e quindi anche le moderne edizioni. Insomma: l’edizione di Andronico era veramente destinata, come già sopra abbiamo detto, a “fare epoca” in tutti i sensi.
    A differenza delle opere essoteriche pubblicate da Aristotele, quelle esoteriche, che erano appunto le lezioni destinate all’uso interno dalla scuola, erano assai difficili e spesso oscure e si rivelava quindi necessario riscostruirne il senso predisponendo quel lavoro di mediazione che nell’antico Peripato veniva fatto nelle lezioni. Nacque così il “commentario”, che via via si fece sempre più raffinato, fino a giungere alla spiegazione di ogni frase del testo aristotelico.
    Andronico e i peripatetici del I secolo a.C. da lui influenzati prepararono la strada con parafrasi, monografie ed esposizioni riassuntive. Con gli aristotelici dei primi due secoli dell’era cristiana e dell’inizio del III secolo il commentario si consolidò e divenne il genere letterario con cui si doveva leggere e intendere Aristotele. Su tutti i peripatetici di quest’epoca, però, spicca Alessandro di Afrodisia che si impose come un’autorità in materia e fu considerato il commentatore per eccellenza.

    ◗ Alessandro di Afrodisia e la sua noetica


    Sulla vita di Alessandro sappiamo pochissimo. Pare che abbia tenuto una cattedra di filosofia in Atene fra il 198 e il 211 d.C. sotto Settimio Severo. Dei numerosi commentari da lui scritti ci sono pervenuti quelli agli Analitici primi (libro I), ai Topici, alla Meteorologia, alla Metafisica (secondo gli studiosi, però, solo la parte concernente i libri I-V sarebbe autentica) e al piccolo trattato Sulla sensazione. Alessandro è noto soprattutto per la sua interpretazione della teoria dell’intelletto e le sue idee in materia ebbero notevole influsso sul pensiero non solo del Medioevo, ma perfino del periodo rinascimentale. Alessandro distinse tre specie di intelletti nell’uomo:
    l’intelletto fisico o materiale, che è pura possibilità o potenza di conoscere tutte le cose;
    l’intelletto acquisito o in habitu , che, mediante la realizzazione della sua potenzialità, possiede la sua perfezione, ossia l’abito del pensare, cioè di astrarre dalla materia la forma;
    l’intelletto agente o produttivo, vale a dire la causa che rende possibile all’intelletto materiale l’attività del pensare e quindi il diventare intelletto in habitu.

    Alessandro si allontana da Aristotele non ammettendo che l’“intelletto agente” sia “nella nostra anima” e facendo di esso un’entità unica per tutti gli uomini e, addirittura, identificandolo con il principio primo, ossia con il Motore Immobile, che è Pensiero di pensiero.
    Si pone così il problema di come l’intelletto agente, che è Dio, possa far sì che l’intelletto materiale diventi in habitu, ossia che l’intelletto materiale acquisti l’abito astrattivo. Alessandro fornisce due differenti risposte al problema, che si integrano a vicenda.
    Abbiamo visto che l’intelletto agente è, per sua natura, sia Intellegibile supremo sia Intelletto supremo, ed è causa dell’abito astrattivo dell’intelletto materiale, sia come Intellegibile supremo, sia come Intelletto supremo.

    Come Intellegibile supremo l’Intelletto produttivo è causa o condizione dell’abito astrattivo del nostro intelletto, in quanto, essendo esso l’Intellegibile per eccellenza, è causa dell’intellegibilità di tutte le altre cose, è la forma suprema datrice di forma a tutte le altre cose. (Il nostro intelletto conosce le cose solo nella misura, appunto, in cui esse sono intellegibili e hanno [pag.395] forma, e l’abito astrattivo non è altro che la capacità di cogliere l’intellegibile e la forma). Ma l’intelletto produttivo causa l’abito astrattivo del nostro intelletto anche come supremo Intelletto, o meglio proprio come supremo Intellegibile che per sua natura è anche supremo Intelletto. È un’azione diretta e immediata dell’intelletto produttivo sull’intelletto materiale che viene postulata da Alessandro come necessaria, oltre all’azione indiretta e mediata sopra esaminata. Perché l’intelletto produttivo possa operare in questa maniera, occorre che entri nella nostra anima e che, quindi, sia in noi. Ma, stante l’identificazione operata da Alessandro fra l’Intelletto produttivo e la Causa prima, ossia Dio, deve trattarsi di una presenza che «viene dal di fuori» e che non è parte costitutiva della nostra anima.
    La partecipazione immediata all’Intelletto divino («l’Intelletto che viene dal di fuori») è, dunque, la condizione sine qua non dell’umano conoscere. È inoltre chiaro che il contatto del nostro intelletto con l’Intelletto divino non può che essere immediato e quindi di carattere intuitivo. Alessandro parla addirittura di “assimilazione del nostro intelletto all’Intelletto divino”, usando un linguaggio che richiama quello dei Medioplatonici. Alessandro sostiene la mortalità della nostra anima e, in particolare, dell’intelletto materiale o potenziale e dell’intelletto in habitu (che è semplicemente l’attuazione e perfezione di quello), però parla anche dell’immortalità dell’Intelletto che viene dal di fuori, sostenendo, così, una concezione che non ha riscontro né nella precedente storia del pensiero greco né in quella seguente. Quando noi intuitivamente cogliamo l’Intelletto divino, il nostro intelletto diventa questo Intelletto e si assimila a Lui e quindi diventa in certo senso immortale. Ma, poiché sappiamo che Alessandro lo chiama Intelletto che vien dal di fuori, allora ne consegue che immortale è proprio (e solo) questo intelletto, mentre il nostro intelletto individuale resta mortale. Alessandro pensava, forse, a una sorta di immortalità impersonale.
    Ma, per poter soddisfare a fondo queste nuove esigenze mistiche, l’Aristotelismo doveva profondamente trasformarsi e fare proprie le istanze del Platonismo e, quindi, perdere la propria identità. Si comprende, pertanto, come, dopo Alessandro, l’Aristotelismo abbia potuto sopravvivere solo nella forma di un momento propedeutico o complementare del Platonismo. In questo senso, infatti, i commentatori neoplatonici alessandrini leggeranno e commenteranno Aristotele. Con Alessandro_di_Afrodisia, dunque, ha termine la tradizione aristotelica come tale. [pag.396]

    3.Il Medioplatonismo

    ◗ Il Medioplatonismo ad Alessandria


    Nell’anno 86 a.C. Silla, conquistando Atene, «mise le mani sui boschi sacri e fece tagliare gli alberi dell’Accademia, il più verde dei sobborghi cittadini, nonché quelli del Liceo». Così l’Accademia, oltre a un progressivo svuotamento interno del proprio messaggio, culminante con l’Eclettismo di Antioco che accolse addirittura alcuni dogmi della Stoà, subì una devastazione anche della sede.
    Ma, poco dopo, il Platonismo rinasceva in Alessandria con Eudoro (nella seconda metà del I secolo a.C.) e si espandeva poi un po’ ovunque, via via accrescendo la propria consistenza e incidenza, fino a culminare nella grande sintesi neoplatonica di Plotino nel III secolo d.C. Il Platonismo che va dal I secolo a.C. a tutto il II secolo d.C. non ha più i caratteri della vecchia scuola e non ha ancora assunto i caratteri che solo Plotino saprà imprimergli; pertanto gli studiosi gli hanno attribuito il nome di Medioplatonismo, per indicare il suo collocarsi in mezzo fra il vecchio e il nuovo.
    • Il tratto più tipico del Medioplatonismo, vale a dire il minimo comune denominatore del pensiero di tutti i suoi esponenti, quasi senza eccezione, consiste in ciò che, rifacendoci alla ben nota immagine platonica, potremmo chiamare la ripresa della “seconda navigazione” e il recupero dei suoi esiti essenziali e delle principali conseguenze da questi scaturite. Il Medioplatonismo recupera i concetti di soprasensibile, immateriale e trascendente e rompe nettamente con il materialismo ormai dominante.
    • Logica conseguenza di questa ripresa fu la riproposta della teoria delle Idee. Alcuni medioplatonici, anzi, la ripensarono a fondo, cercando di integrare la posizione assunta al riguardo da Platone con quella aristotelica. Albino e il suo circolo considerarono le Idee nel loro aspetto trascendente come “pensieri di Dio” (il mondo dell’Intellegibile venne identificato con l’attività e con il contenuto della suprema Intelligenza), e nel loro aspetto immanente come “forme” delle cose. Alla trasformazione della teoria delle Idee si accompagnò, per logica conseguenza, una parallela trasformazione della concezione dell’intera struttura del mondo dell’incorporeo, con esiti che chiaramente preludono al Neoplatonismo.
    • Il testo che i medioplatonici considerarono punto di riferimento e dal quale desunsero lo schema stesso per il ripensamento della dottrina platonica fu il Timeo. In effetti, nel difficile compito di ridurre la filosofia platonica a sistema, il Timeo rappresentava il dialogo in grado di offrire la trama di gran lunga più solida.
    • La dottrina dei principi del Platone esoterico, ossia la dottrina della Monade e della Diade, venne in parte ripresa, ma rimase decisamente sullo sfondo. Ben altra importanza essa ebbe nell’ambito del parallelo movimento neopitagorico. Questo era inevitabile, dato che l’impianto teoretico del Timeo e la riduzione delle Idee a pensieri di Dio non lasciavano spazio alla dottrina della Monade e della Diade.
    • Anche per i medioplatonici, così come per i filosofi della precedente età, il problema etico restò preminente, ma venne riproposto e fondato in modo nuovo. La nuova parola d’ordine dei medioplatonici fu: “segui Dio”, “assimilati a Dio”, “imita Dio”. La riscoperta della trascendenza doveva, logicamente, modificare a poco a poco tutta la visione della vita proposta dall’età ellenistica. Appunto nell’assimilazione al divino trascendente e incorporeo i medioplatonici, concordemente, riconobbero la cifra autentica della vita morale.
    Nella prima metà del I secolo d.C. si colloca l’attività di Trasillo , al cui nome è legata la divisione dei dialoghi platonici in tetralogie.
    A cavallo fra il I e il II secolo d.C. si pone Plutarco di Cheronea , discepolo dell’egizio Ammonio, il quale aveva costituito ad Atene un circolo di platonici. [pag.397]
    Nella prima metà del II secolo d.C. visse Gaio , alla cui scuola si collegano, come sembra, Albino e Apuleio.
    Al II secolo d.C. appartennero molti platonici, fra cui spiccarono Teone di Smirne e Attico . In quest’epoca, ormai, il Platonismo si era imposto quasi come un pensiero ecumenico.
    Solo una parte assai esigua della produzione di questi autori ci è pervenuta, tranne poche eccezioni. Possediamo ancora opere di Plutarco (in gran numero), di Teone di Smirne, di Albino, di Apuleio e di Massimo di Tiro. Di altri medioplatonici possediamo solo frammenti. Di qualcuno, infine, conosciamo quasi solo il nome. I documenti integrali più significativi che ci sono pervenuti, come già abbiamo detto, sono il Didascalico di Albino e alcuni trattati di Plutarco.

    ◗ Significato e importanza del Medioplatonismo


    Per lungo tempo l’importanza del Medioplatonismo fu misconosciuta. Ma senza il movimento medioplatonico il Neoplatonismo sarebbe pressoché inspiegabile. Plotino, nelle sue lezioni, commentò fondamentalmente testi medioplatonici e testi di peripatetici influenzati dal Medioplatonismo e dai medioplatonici desunse alcuni problemi di fondo con le relative soluzioni.
    Il Medioplatonismo, inoltre, è importante anche ai fini della comprensione del primo pensiero cristiano, ossia della prima Patristica, la quale desunse da questa corrente le categorie di pensiero con cui cercò di fondare filosoficamente la fede.
    Il Medioplatonismo è, dunque, uno degli anelli di congiunzione essenziali nella storia del pensiero occidentale.
    I limiti di questo movimento sono costituiti dal fatto che i tentativi di ripensamento e di risistemazione del Platonismo sono rimasti oscillanti e, per così dire, a mezza strada. Nessuno dei medioplatonici, infatti, seppe giungere a una sintesi, se non definitiva, quantomeno esemplare. Al Medioplatonismo non mancarono uomini di ingegno, ma mancò il genio creatore o ricreatore e, appunto per questo, esso restò filosofia di transizione, a metà del cammino che conduce da Platone a Plotino.
    [pag.398]

    4.Il Neopitagorismo

    ◗ Rinascita del Pitagorismo


    L’antica Scuola pitagorica fu attiva fino agli inizi del IV secolo a.C. Il sintomo più significativo della crisi della scuola è l’episodio già segnalato della messa in vendita da parte di Filolao, contemporaneo di Socrate, dei libri pitagorici, fino ad allora tenuti segreti. Ma già in età ellenistica, forse a partire dal III secolo a.C., il Pitagorismo rinacque. Dapprima ciò avvenne in forma alquanto ambigua. Alcuni anonimi pubblicarono sotto falsi nomi di antichi pitagorici una serie di scritti, aventi l’evidente scopo di far passare per pitagoriche dottrine di filosofi posteriori. Gli scritti e le testimonianze pervenuteci di questi falsi pitagorici non hanno grande interesse filosofico, ma piuttosto culturale e documentario.
    Un interesse maggiore presentano invece i nuovi pitagorici che si presentano con il loro volto e con il loro nome e, fra questi, soprattutto gli esponenti della corrente metafisica, fra i quali fanno spicco soprattutto: Moderato di Gades (I secolo d.C.); Nicomaco di Gerasa (prima metà del II secolo d.C.); Numenio di Apamea (seconda metà dello stesso secolo).
    Inoltre è da rilevare anche l’aspetto mistico del Neopitagorismo rappresentato da Apollonio di Tiana , che visse nel I secolo d.C., di cui Filostrato, nel III secolo, su richiesta di Giulia_Domna (moglie di Settimio Severo ), scrisse la vita, con l’intento di presentare Apollonio come fondatore di un nuovo culto religioso, basato sull’interiorità e sulla spiritualità. ? Le dottrine dei neopitagorici
    Ecco quali sono le linee di fondo e i temi principali di quello che più propriamente si denomina Neopitagorismo, fiorito tra la fine dell’era pagana e i primi due secoli dopo la nascita di Cristo. I neopitagorici operano parallelamente ai medioplatonici la riscoperta e la riaffermazione dell’“incorporeo” e dell’“immateriale”, ossia il recupero di quell’orizzonte trascendente che era stato perduto con i sistemi filosofici dell’età ellenistica.
    La dottrina della Monade e della Diade viene sottoposta ad approfondimenti di un certo rilievo. A partire da un’originaria formulazione che vedeva nella Monade e nella Diade la suprema coppia di contrari, si delinea una tendenza sempre più accentuata a porre la Monade in posizione di assoluto privilegio. I neopitagorici distinguono una “prima” da una “seconda monade” e, contrapponendo solo a quest’ultima la Diade, cercano di dedurre dalla Monade suprema tutta quanta la realtà, compresa la Diade stessa.
    Alla dottrina delle Idee viene dato scarso rilievo e solo subordinatamente alla dottrina dei numeri, i quali vengono intesi, oltre che in senso metafisico, anche in senso teologico, anzi teosofico: si sviluppa, cioè, una vera e propria aritmologia o aritmosofia.
    Per quanto concerne la concezione dell’uomo, i neopitagorici richiamano in auge la dottrina della spiritualità dell’anima e della sua immortalità (e, di conseguenza, anche la dottrina della metempsicosi). Il fine dell’uomo viene additato nel distacco dal sensibile e nell’unione con il divino.
    L’etica neopitagorica assume forti tinte mistiche. La stessa filosofia viene intesa come rivelazione divina e la figura ideale del filosofo, identificata in maniera paradigmatica in Pitagora, più che quella di un uomo perfetto diventa quella di un essere prossimo a un Demone o a un dio o, comunque, quella di un profeta o di un uomo superiore che può essere avvicinato agli dei. [pag.399]

    ◗ Numenio di Apamea e la fusione fra Neopitagorismo e Medioplatonismo


    Con Numenio il Neopitagorismo raggiunge il suo vertice più alto, ma, nel medesimo tempo, si fonde con il parallelo movimento medioplatonico.
    Il problema metafisico per eccellenza, come sappiamo, per i filosofi greci si riassume nella domanda: “Che cos’è l’essere?”. Appunto in questa forma Numenio lo ripropone.
    La risposta che egli dà a tale quesito presuppone non solo un generico superamento del materialismo dell’età ellenistica, ma addirittura il suo sistematico rovesciamento.
    L’essere non può identificarsi con la materia, perché essa è indeterminata, disordinata, irrazionale, inconoscibile, mentre l’essere non muta; non può identificarsi con un corpo, dato che i corpi di per sé sono sottoposti a continuo cambiamento e hanno bisogno, in ogni caso, di qualcosa che li faccia perdurare, e questo qualcosa non può essere, a sua volta, un corpo, perché, se così fosse, daccapo avrebbe esso pure bisogno di un ulteriore principio che ne garantisse la stabilità e la permanenza: dovrà, dunque, essere incorporeo. L’essere, allora, sarà la realtà immutabile ed eterna dell’incorporeo, e questo è l’intellegibile.
    Il sensibile, ossia il corporeo, non è essere, ma divenire. Questo Essere che realmente è e mai diviene né perisce, ossia l’Incorporeo, è anche il biblico “Colui che è”. Numenio era infatti convinto che l’insegnamento di Platone corrispondesse all’antico insegnamento di Mosè, che egli conosceva bene, e che interpretava in maniera allegorica, alla maniera di Filone Ebreo (di cui diremo), come le nostre fonti ci riferiscono. Anzi, Numenio si spingeva ancor più in là di Filone infatti egli non solo era convinto che la concezione dell’Incorporeo e dell’Essere professata da Platone corrispondesse a quella di Mosè, ma affermava che Platone, in fondo, non era se non un “Mosè atticizzante”, ossia un Mosè che parlava in attico.
    Qual è la struttura dell’essere e dell’incorporeo? Già nei medioplatonici soprattutto del II secolo d.C. si riscontra chiaramente una tendenza a concepire la realtà immateriale in senso gerarchico-ipostatico e un certo configurarsi di questa gerarchia, in senso triadico. Numenio porta questa tendenza al grado massimo di chiarezza, prima di Plotino.
    Il Primo Dio si occupa esclusivamente delle pure essenze, ossia con le Idee; invece il Secondo Dio si occupa della costituzione del cosmo. Numenio ritiene, precisamente, che l’Idea del Bene o Bene in sé, di cui Platone parla nella Repubblica e da cui fa dipendere le altre Idee, coincida appunto con il primo Dio. Invece, il Demiurgo che costituisce il cosmo, di cui Platone parla nel Timeo, è detto essere “buono”, ma non “Bene”; esso, dunque, è altro dal Dio Supremo ed è, appunto, il Secondo Dio. Da Lui non dipende il mondo delle Idee supreme, che dipende dal Primo, bensì il mondo della genesi. Il Secondo Dio imita il Primo, pensa le essenze prodotte dal Primo e le riproduce nel cosmo.
    Il Terzo Dio, che è poi il Secondo nella sua funzione specificamente demiurgica, ossia nella sua funzione ordinatrice della materia informe (Diade), è evidentemente quello che lo stesso Numenio chiama “anima del mondo”, o, più precisamente, “anima buona” del mondo. (Egli ammette, infatti, anche un’anima malvagia del mondo, che è quella propria della materia sensibile. ) Le tangenze che si potrebbero rilevare fra Numenio e Plotino sono numerose, alcune riguardanti alcuni corollari, altre riguardanti i fondamenti stessi del sistema.
    In primo luogo, Numenio anticipa il principio che ispira la “processione” delle ipostasi plotiniane, secondo cui il Divino dona senza che il suo donare lo impoverisca. Notevolissima è poi l’affermazione secondo cui la contemplazione del Dio Secondo che guarda il Primo costituisce la base da cui deriva la possibilità della creazione del cosmo. La contemplazione, infatti, avrà un ruolo determinante nel sistema plotiniano.
    Inoltre, il nostro filosofo formula il principio secondo cui si può affermare che, in un certo senso, tutto è in tutto, nella maniera in cui Plotino lo utilizzerà.
    Infine, in Numenio si trova un impressionante anticipo della dottrina della plotiniana unio mystica con il Bene.
    Con Numenio siamo giunti veramente alle soglie del Neoplatonismo. [pag.400]

    5.Il Corpus Hermeticum e gli Oracoli Caldaici

    ◗ L’Ermetismo e l’ipostasi


    In età ellenistica, nei primi secoli dell’età imperiale (in particolare nei secoli II e III d.C.), si sviluppò una ricca letteratura di tono filosofico-soteriologico-religioso (in parte pervenutaci), di vario carattere, ma accomunata dalla pretesa di essere rivelata direttamente da Thoth, il dio egizio scriba, interprete e messaggero degli dei, che i Greci identificarono con il loro dio Ermes e chiamarono Ermete Trismegisto (tre volte sommo), donde il nome di letteratura “ermetica” (cioè ispirata da Ermes).
    La figura di Ermete Trismegisto ebbe molta fortuna anche nei secoli successivi.
    Ai Padri della Chiesa, a cominciare da Tertulliano e da Lattanzio, a motivo dell’elevatezza delle concezioni teologiche e morali che si riscontrano in alcuni degli scritti ermetici (quelli composti nei primi secoli dell’età imperiale), Ermete Trismegisto parve essere, se non un dio, almeno un profeta, una sorta di «pagano profeta di Cristo», vissuto all’epoca di Mosè. E appunto come «pagano profeta di Cristo » fu poi considerato durante il Medioevo e durante l’età dell’Umanesimo e del Rinascimento.
    Le moderne ricerche, già a partire dal secolo XVIII, hanno appurato che gli scritti ermetici sono degli pseudoepigrafi, composti da autori diversi, che si nascondono sotto la maschera del dio egiziano. [pag.401]
    Fra i numerosi scritti attribuiti a Ermete Trismegisto il gruppo di gran lunga più interessante è costituito da diciassette trattati (di cui il primo reca il titolo di Pimandro ), più uno scritto pervenutoci solo in una versione latina (in passato attribuito ad Apuleio ) di un trattato dal titolo Asclepio (forse composto nel IV secolo d.C.). È appunto questo gruppo di scritti che viene denominato Corpus Hermeticum (Corpo degli scritti che vanno sotto il nome di Ermete).
    Dio viene concepito in funzione dell’incorporeo, della trascendenza e dell’infinitudine; viene anche considerato come Monade e Uno, “principio e radice di tutte le cose”; infine, viene espresso anche in funzione dell’immagine della luce. Teologia negativa e positiva s’intrecciano: da un lato, si tende a concepire Dio come al di sopra di tutto, come totalmente altro da tutto ciò che è, come “senza forma e senza figura”, e, quindi, addirittura come “privo di essenza” e perciò ineffabile; dall’altro, si riconosce che Dio è Bene e Padre di tutte le cose, e, quindi, causa di tutto e, in quanto tale, si tende a rappresentarlo positivamente.
    La gerarchia degli “intermediari” fra Dio e il mondo è così concepita.
    • Al vertice sta il Dio supremo, Luce e Intelletto supremo.
    • Segue il Logos, che è “figlio” primogenito di Dio supremo.
    • Dal Dio supremo deriva anche un Intelletto demiurgico che è “consustanziale” rispetto al Logos.
    • Segue l’Anthropos, ossia l’Uomo incorporeo, esso pure derivato da Dio e “immagine di Dio”.
    • Segue, infine, l’Intelletto che viene dato all’uomo terreno (rigorosamente distinto dall’anima e nettamente superiore a essa), che è quanto di Divino c’è nell’uomo.
    La generazione dell’uomo terrestre viene spiegata in modo complesso. L’Anthropos o Uomo incorporeo, terzogenito del Dio supremo, vuole imitare l’Intelletto demiurgico e creare, egli pure, qualcosa. Ottenuto il consenso del Padre, l’Anthropos attraversa le sette sfere celesti fino alla Luna, ricevendo, per partecipazione, le potenze di ciascuna di esse, e poi si affaccia dalla sfera della Luna e vede la natura sublunare. L’Anthropos si innamora immediatamente di questa natura e, a sua volta, la natura si innamora dell’uomo. Più precisamente, l’uomo si innamora della propria immagine riflessa nella natura (nell’acqua), viene colto dal desiderio di unirsi a essa, e così cade. Nasce, in tal modo, l’uomo terrestre, con la sua duplice natura, spirituale e corporea.

    Il messaggio dell’Ermetismo, da cui è discesa tutta la sua fortuna, si risolve in una dottrina della salvezza e le sue teorie metafisico-teologico- cosmologico-antropologiche non sono altro che i supporti di questa soteriologia.
    Come la nascita dell’uomo terrestre è dovuta alla caduta di Anthropos (l’Uomo incorporeo) che ha voluto congiungersi alla natura materiale, così la sua salvezza consiste nella [pag.402] liberazione dai lacci materiali. I mezzi per la liberazione sono quelli indicati dalla conoscenza (gnosi) della dottrina ermetica. L’uomo deve innanzitutto conoscere se medesimo, convincersi che la sua natura consiste nell’intelletto e poiché l’intelletto è parte di Dio (Dio in noi), riconoscere se stesso in questo modo significa riconoscere Dio. Tutti quanti gli uomini posseggono l’intelletto, ma solo allo stato potenziale; dipende, però, da ciascuno di essi il possederlo in atto oppure perderlo. Se l’uomo, a motivo della scelta del bene, sa mantenere il proprio intelletto, allora si rende degno di tale dono divino e non deve aspettare la morte fisica per raggiungere il suo fine, ossia per “indiarsi”.

    ◗ Gli Oracoli Caldaici : triade e teurgia


    Gli Oracoli Caldaici sono un’opera in esametri (di cui non ci restano che dei frammenti) scritta – pare – da Giuliano il Teurgo nel II secolo d.C.; molte sono le analogie con gli scritti ermetici, anche se questi scritti, anziché ricollegarsi alla sapienza egizia, si collegano a quella caldaica.
    L’autore sostiene di aver ricevuto questi oracoli dagli dei. Le dottrine metafisiche contenute negli Oracoli sono ispirate al Medioplatonismo, al Neopitagorismo e presentano molte affinità con Numenio.
    La novità consiste nel concetto di triade, con cui si interpreta tutta la realtà: «La triade contiene tutte le cose e di tutte è misura». Inoltre gli Oracoli presentano la dottrina della teurgia, che è l’arte della magia applicata a fini religiosi. Il teologo parla intorno a Dio, il teurgo, invece, evoca gli dei e agisce su di loro.
    Le pratiche teurgiche purificano l’anima e garantiscono l’unione con il Divino per via alogica. Gli ultimi neoplatonici considerarono gli Oracoli Caldaici come un vero libro sacro e lo utilizzarono nella stessa maniera con cui i cristiani utilizzarono la Bibbia.