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1.Genesi e struttura del sistema plotiniano

◗ Ammonio_Sacca, il maestro di Plotino


Con Numenio di Apamea si giunge alle soglie del Neoplatonismo, ma la fucina in cui furono forgiati i capisaldi di questo movimento fu la Scuola di Ammonio_Sacca in Alessandria , che si colloca a cavallo fra il II e il III secolo d.C.. Da Porfirio sappiamo che Ammonio fu educato in una famiglia cristiana; ma, dopo essersi dedicato alla filosofia, tornò alla religione pagana. Non appartenne alle celebrità conclamate del tempo, ma visse una vita schiva e ritirata dal clamore del mondo e coltivò la filosofia intesa come esercizio, oltre che di intelligenza, di vita e di ascesi spirituale, insieme a pochi discepoli a lui legati profondamente. Purtroppo non scrisse nulla e il suo pensiero è assai difficilmente ricostruibile. Ma che esso sia stato di eccezionale profondità e portata lo si desume – tra l’altro – dai seguenti fatti. Plotino, giunto ad Alessandria, udì tutte le celebrità che allora professavano filosofia nella città e ne rimase insoddisfatto. Condotto da un amico presso Ammonio, dopo aver udito una sola lezione, esclamò: «Questo è l’uomo che cercavo!» e con lui rimase ben undici anni. Da Porfirio, poi, sappiamo che Plotino «nel metodo di ricerca si atteneva allo spirito di Ammonio», e sappiamo, inoltre, che anche gran parte del contenuto del suo pensiero proveniva da Ammonio.
Siccome tutti gli scritti dei più dotati discepoli pagani di Ammonio sono andati perduti e ci restano solo le Enneadi di Plotino, non possiamo sapere quanto Plotino debba ad Ammonio. Ma il seguente fatto che ci viene riferito è particolarmente eloquente. Un giorno, alla Scuola di Plotino venne un suo ex condiscepolo della Scuola di Ammonio. Plotino cercò di evitare di iniziare la lezione e, dietro insistenza dell’amico, rispose: «Quando l’oratore sa di parlare a persone che conoscono già quello che egli vorrà dire, ogni ardore cessa». E dopo breve conversazione se ne andò. Non è azzardato pensare che il rapporto fra Ammonio e Plotino sia stato all’incirca quello che sussisteva fra SocratePlatone.

◗ La vita, le opere e la Scuola di Plotino


Plotino entrò a far parte del circolo di Ammonio nel 232 d.C., quando aveva 28 anni (era nato nel 205 d.C. a Licopoli), e vi rimase fino al 243 d.C., anno in cui lasciò Alessandria per seguire l’imperatore Gordiano nella sua spedizione orientale. Fallita la spedizione, a causa dell’uccisione dell’imperatore, Plotino decise di recarsi a Roma, dove giunse nel 244 d.C. e dove aprì una scuola. Fra il 244 e il 253 d.C. tenne lezioni senza scrivere nulla, per fedeltà a un patto stretto con Erennio e Origene_il_Pagano di non divulgare le dottrine di Ammonio. Ma ben presto [pag.409] Erennio e Origene ruppero il patto e anche Plotino dal 254 d.C. iniziò a scrivere trattati, in cui fissare per iscritto le sue lezioni. Il discepolo Porfirio ordinò questi trattati, che sono in tutto 54, dividendoli in sei gruppi di nove, lasciandosi guidare dal significato metafisico del numero nove, donde il titolo di Enneadi (ennea in greco significa “nove”) dato a questi scritti, interamente pervenutici, che, insieme ai dialoghi platonici e agli esoterici aristotelici, contengono uno dei più alti messaggi filosofici dell’antichità e dell’Occidente.
Plotino godette di grandissimo prestigio, dal momento che alle sue lezioni assistevano anche potenti uomini politici. Lo stesso imperatore Gallieno e la moglie Solonina lo apprezzavano al punto da prendere in considerazione un suo progetto di fondare in Campania una città di filosofi, che avrebbe dovuto chiamarsi Platonopoli, i cui abitanti avrebbero dovuto «osservare le leggi di Platone», ossia vivere realizzando l’unione col divino. Il progetto fallì a causa delle trame dei cortigiani. Plotino morì a 66 anni, nel 270 d.C., a causa di un male che lo aveva costretto a interrompere le lezioni e a ritirarsi lontano dagli amici.
Le sue ultime parole al medico Eustochio (che rispecchiano bene, oltre che le finalità del suo filosofare, lo scopo di fondo della sua Scuola) suonano come un autentico testamento spirituale, che suggella la sua dottrina: «Cercate di ricongiungere il divino che è in voi al divino che è nell’universo».

◗ L’Uno come principio primo assoluto produttore di se medesimo


È impossibile intendere l’originalità e la novità di Plotino, e in particolare il suo personale contributo alla “seconda navigazione”, se non si tiene presente la riforma di struttura che egli apporta alla metafisica sia platonica sia aristotelica e che conduce a risultati, per più di un aspetto, rivoluzionari. È vero che in Platone ci sono spunti plotiniani ante litteram e che nella successiva storia del Platonismo questi spunti vengono ampliati in modo considerevole (il Neopitagorismo, il Medioplatonismo, il Neoaristotelismo costituiscono tappe essenziali, senza le quali il Neoplatonismo sarebbe impensabile), ma Plotino va ben oltre, perché da questi prodromi risale a una vera e propria rifondazione sistematica e strutturale della metafisica classica.
Secondo Plotino ogni ente è tale in virtù della sua unità: tolta l’unità è tolto l’ente. Ora, vi sono principi di unità a diversi livelli; ma tutti suppongono un principio supremo di unità, che egli denomina appunto Uno, il quale è “al di sopra” dell’essere e dell’intelligenza. L’Uno è una ipostasi, cioè una sostanza, che trascende lo stesso Essere: in questo senso, Plotino riprende e porta alle conseguenze estreme il nucleo centrale delle Dottrine non scritte di Platone.
Nel ricercare il fondamento delle cose, che è l’unità, siamo costretti a risalire dal mondo fisico all’Anima (che è l’ipostasi più bassa in quanto ha, ma non è unità), dall’Anima al Nous (che è la seconda ipostasi e ha un’unità più alta di quella dell’Anima, ma è anch’esso molteplice) e dal Nous a un principio ulteriore, assolutamente semplice: l’Uno, che è ipostasi prima, il Principio imprincipiato, l’Assoluto.
Già Platone presenta la concezione dell’Uno-Bene come al di sopra dell’essere, e implicitamente al di sopra dell’intelligenza (e quindi anche della vita). Ma la motivazione radicale e ultimativa di questo “essere al di sopra” si trova in Plotino e consiste appunto nell’infinitudine dell’Uno. L’infinito plotiniano non è l’infinito dello spazio né quello della quantità: l’infinito è inteso come illimitata, inesauribile, immateriale potenza produttrice. Intendere l’Uno [pag.410] in questo modo significa considerarlo come infinita spirituale energia creatrice: L’Uno è originariamente creatore di se stesso e, di conseguenza, di tutte le altre cose.

Le conseguenze rivoluzionarie di questo concetto nell’ambito della “seconda navigazione” sono le seguenti.
Prima di tutto, l’Uno non potrà essere inteso come Idea nel senso platonico, perché per Platone forma ed essenza implicano finitudine ossia limite; ma l’Uno non potrà essere nemmeno l’aristotelica sostanza immobile, l’Intelligenza autopensantesi, perché anch’essa è altrettanto finita e determinata. Invece Plotino sente la necessità di porre l’Uno al di sopra dell’essere e del pensiero: esso trascende non solo il mondo fisico, ma anche ogni forma di finitudine. Si comprende, pertanto, come Plotino tenda a dare dell’Uno caratterizzazioni e definizioni prevalentemente negative: infatti, in quanto è infinito, a Lui non si addice alcuna delle determinazioni del finito, che sono tutte posteriori. L’espressione “al di là di tutto” è l’unica che risulti adeguata. E quando Plotino riferisce all’Uno caratterizzazioni positive, usa un linguaggio analogico.
L’Uno, riferito al Principio, non significa un particolare uno o una determinata unità, ma è l’Uno-in-sé ossia l’assolutamente semplice che è la causa e la ragion d’essere di tutte le altre cose. Bisogna però fare attenzione poiché la semplicità dell’Uno non è sinonimo di povertà, bensì di infinita potenza e ricchezza: è potenza di tutte le cose perché le porta da sé all’essere. In questo senso, l’Uno è contemporaneamente tutto e nulla di tutto, dal momento che tutte le altre cose sono de-terminate e de-finite al di sotto del Principio, che quindi non può essere caratterizzato da nessuna di esse.
L’altro termine che Plotino usa più di frequente per designare il principio assoluto è Bene (agathón). Si tratta, ovviamente, non di un particolare bene, ma del Bene-in-sé o, meglio, non di qualcosa che ha il Bene, ma che è il Bene stesso.
Quindi, resta chiaro il senso delle affermazioni plotiniane che l’Uno è «al di sopra dell’essere, del pensiero e della vita». Queste affermazioni non significano che l’Uno è non-essere, nonpensiero, non-vita, ma, piuttosto, che, come principio infinito da cui derivano l’essere, il pensiero e la vita, l’Uno è assolutamente superiore a questi suoi prodotti: per questo in qualche caso Plotino definisce l’Uno come Super-essere, Super-pensiero, Super-vita.
L’Uno assoluto, dunque, è causa di tutto il resto. Ma – si domanda Plotinoperché c’è l’Assoluto e perché è quello che è? È questa una domanda che nessuno dei filosofi greci si era posta (alla quale Plotino fu spinto forse a motivo della sua polemica antignostica) e che, per la sua arditezza, tocca davvero i limiti della metafisica. La risposta di Plotino raggiunge uno dei vertici più alti del pensiero occidentale: l’Uno “si autopone”, è attività autoproduttrice, è il Bene che crea se stesso. Egli è come ha voluto essere. E ha voluto essere così com’è, perché è «quanto di più alto si possa immaginare».
Dunque, l’Uno è attività autoproduttrice, assoluta libertà creatrice, causa di sé, è ciò che esiste da sé e per sé, è “il trascendente se stesso”. La concezione dell’Assoluto come causa sui o “autoctisi”, di cui parlerà la filosofia moderna, è già pienamente presente a livello tematico e sistematico in Plotino, che, con essa, raggiunge vette addirittura più alte di quelle toccate da Platone e da Aristotele. [pag.411]

◗ Il problema della derivazione delle cose dall’Uno


Perché e come dall’Uno sono derivate altre cose? Perché l’Uno, pago di se stesso, non è rimasto in se stesso? Anche la risposta a questo problema data da Plotino costituisce uno dei vertici dell’antichità e rappresenta un unicum nella storia della filosofia dell’Occidente.
La risposta a questo problema è stata spesso fraintesa, perché quasi tutti i lettori delle Enneadi si sono fermati alle immagini che Plotino adduce per illustrarla. La più celebre è certamente l’immagine della luce. La derivazione delle cose dall’Uno è rappresentata come l’irraggiarsi di una luce da una fonte luminosa in forma di cerchi successivi, come “luce da luce”. Altre immagini, non meno famose, sono quella del fuoco che emana calore, quella della sostanza odorosa che emana profumo, quella della sorgente inesauribile che genera fiumi, quella della vita dell’albero che dalle radici produce e pervade il tutto, dei cerchi concentrici che si espandono via via da un unico centro.
Ma queste immagini, di cui Plotino si è avvalso a scopi puramente didattici, illustrano solamente un punto della dottrina, ossia che l’Uno produce tutte le cose restando fermo e, permanendo, genera, senza che il suo generare lo impoverisca e lo condizioni in alcun modo: ciò che è generato è inferiore e non serve al generante. La dottrina plotiniana è in realtà molto più ricca.
Plotino distingue due tipi diversi di attività: • l’attività dell’Uno, che è quella per cui l’Uno è Uno e “rimane” Uno; • l’attività che deriva dall’Uno, che è quella per cui dall’Uno procede alcunché di altro. Questa seconda attività, ovviamente, dipende dalla prima.
Applicando questa distinzione si dovrà parlare di un’attività dell’Uno che consiste nell’autoporsi dell’Uno, nella sua libertà autocreatrice e che, quindi, è per eccellenza libera; e di un’attività che procede dall’Uno e che è sui generis, perché è una “necessità” che dipende da un “atto di libertà” (si potrebbe dire che è una necessità voluta).
Per questo non si può parlare di “emanazione”, ma si deve parlare di “processione” delle cose dall’Uno. La “processione” non è mera necessità del tipo usuale, perché consegue alla suprema attività che è assoluta libertà (in termini teologici diremmo che, per Plotino, Dio non crea liberamente l’altro da sé, ma crea liberamente sé come infinita potenza; questa, a sua volta, necessariamente, si espande producendo l’altro da sé).

◗ La seconda ipostasi: il Nous o Spirito


Dalla prima suprema realtà o ipostasi deriva la seconda, che Plotino chiama Nous. Questo Nous è l’intelligenza suprema aristotelica che contiene in sé l’intero mondo platonico delle Idee, cioè l’Intelligenza che pensa la totalità degli intellegibili. La traduzione di Nous con Intelletto impoverisce l’originario significato del termine; quindi meglio sarebbe tradurre il termine con Spirito, come molti fanno, intendendo con esso l’unione del supremo Pensiero e del supremo Pensato. Come nasce lo Spirito? L’attività che procede dall’Uno è come una potenza informe (una sorta di materia intellegibile), che, per sussistere, deve rivolgersi a contemplare il principio da cui è derivata e fecondarsi o riempirsi di esso, e, poi, deve rivolgersi su se medesima e contemplarsi, così fecondata.
Nel primo momento nasce l’essere o sostanza o contenuto del pensiero; nel secondo momento nasce il pensiero vero e proprio. Così nasce anche la molteplicità (dualità) di pensiero e di pensato, e anche la molteplicità nel pensato, dato che lo Spirito, quando guarda sé fecondato dall’Uno, vede in sé la “totalità delle cose”, ossia la totalità delle Idee. Mentre l’Uno era “la potenza di tutte le cose”, lo Spirito diventa “tutte le cose”, o l’esplicazione di tutte le cose, a livello ideale. Il mondo platonico delle Idee è, dunque, il Nous, lo Spirito. Le Idee non solo sono pensiero dello Spirito, ma sono esse stesse Spirito, Pensiero.
Lo Spirito plotiniano diventa, così, l’Essere, il Pensiero, la Vita per eccellenza. È cosmo intellegibile in cui in ogni Idea si riverbera il Tutto, e in cui, viceversa, nel Tutto si riflette ogni Idea. [pag.412]

◗ La terza ipostasi: l’Anima


Come l’Uno, se vuol diventare mondo delle Forme e Pensiero, ossia se vuole pensare, deve farsi Spirito, così, se vuole creare un universo e un cosmo fisico, deve farsi Anima. L’Anima deriva dallo Spirito come questo deriva dall’Uno.
Plotino distingue un’attività dello Spirito, che è quella che lo fa essere tale e che coincide con quella esaminata nel precedente paragrafo; e un’attività che procede dallo Spirito. Il risultato dell’attività che procede dallo Spirito non è immediatamente Anima. Analogamente a quanto abbiamo già visto a proposito dello Spirito nei confronti dell’Uno, anche la potenza che procede dall’attività dello Spirito si rivolge a contemplare lo Spirito stesso. Rivolgendosi allo Spirito, l’Anima trae la propria sussistenza (ipostasi) e, attraverso lo Spirito, vede l’Uno ed entra in contatto col Bene medesimo.
Questo aggancio dell’Anima con l’Uno-Bene costituisce uno degli assi portanti dell’intero sistema plotiniano, vale a dire il fondamento, oltre che dell’attività creatrice dell’Anima, della possibilità del “ritorno all’Uno”.
La natura specifica dell’Anima non consiste nel puro pensare (altrimenti non si distinguerebbe dallo Spirito), ma nel dar vita a tutte le altre cose che sono, ossia a tutte le cose sensibili, nell’ordinarle, reggerle e governarle. E questo “ordinare”, questo “reggere” e “comandare” coincide col generare e con il far vivere le cose medesime. L’Anima, quindi, è principio di movimento ed è essa stessa movimento. Essa è “l’ultima dea”, ossia l’ultima realtà intellegibile, la realtà che confina con il sensibile, essendone essa stessa causa.
L’Anima ha quindi posizione intermedia, e pertanto ha come “due facce”, perché, nel generare il corporeo, pur continuando a essere e a permanere realtà incorporea, le “accade” di entrare in contatto con il corporeo da lei prodotto, ma non al modo del corporeo. Essa può quindi entrare in ogni parte del corporeo «senza deflettere dalla unità del suo essere», e quindi può trovarsi tutta-in-tutto. In questo senso si può dire che l’Anima è divisa-e-indivisa, una-emolteplice. L’Anima, pertanto, è “uno-e-molti”, mentre lo Spirito è “uno-molti”, il Principio primo è solo “Uno” e i corpi sono solo “molti”.
Per intendere bene quest’ultimo asserto, dobbiamo ricordare che, per Plotino, la pluralità dell’Anima, oltre che “orizzontale”, è anche “verticale”, nel senso che prevede una gerarchia di anime.
In primo luogo, c’è l’Anima suprema, l’Anima come pura ipostasi che resta in stretta unione con lo Spirito da cui proviene.
Viene poi l’Anima del tutto, che è l’Anima in quanto creatrice del mondo e dell’universo fisico. Ci sono, infine, le anime particolari, quelle che “scendono” ad animare i corpi, gli astri e i viventi tutti.
È chiaro che tutte le anime derivano dalla prima e non solo sono con essa nel rapporto di unoe- molti, ma sono anche “distinte” dall’Anima suprema senza essere “separate”.

◗ La processione del cosmo fisico


Con l’Anima ha termine la serie delle ipostasi del mondo incorporeo e intellegibile. Dopo l’Anima e al di sotto di essa si estende il mondo del corporeo e del sensibile, l’universo fisico. Perché la realtà non termina con il mondo incorporeo ed esiste anche un mondo corporeo? Come è sorto il sensibile? Qual è il suo valore? La novità che Plotino introduce nella spiegazione dell’origine del cosmo fisico sta soprattutto nel fatto che egli tenta di dedurre la materia, senza presupporla come se fosse qualcosa che dall’eternità si contrapponga al primo principio. La materia sensibile deriva dalla sua causa come possibilità ultima, ossia come estrema tappa di quel processo in cui la forza produttrice si indebolisce fino a esaurirsi. In tal modo la materia sensibile diventa esaurimento totale e quindi privazione estrema della [pag.413] potenza dell’Uno (e perciò dell’Uno) o, in altri termini, privazione del Bene (che coincide con l’Uno). In questo senso la materia è male; male inteso non come forza negativa che si opponga al positivo, ma semplicemente è mancanza o “privazione” del positivo. Essa è detta anche non essere, «perché è diversa dall’essere, e giace al di sotto di lui».

Il mondo fisico nasce dunque in questo modo:
  • dapprima l’Anima pone la materia, che è come l’estremità del cerchio di luce che diviene oscurità;
  • successivamente dà forma a questa materia, quasi squarciandone l’oscurità e recuperandola, nella misura del possibile, alla luce. Ovviamente le due operazioni sono distinte non cronologicamente, ma solo logicamente. La prima azione dell’Anima consiste nell’affievolirsi della contemplazione, la seconda nell’estrema riscossa della contemplazione stessa. Il mondo fisico è uno specchio di forme, che, a loro volta, sono il riverbero delle Idee, e così tutto è forma e tutto è logos.
    Il passaggio dal mondo intellegibile al mondo sensibile comporta il passaggio dall’essere al divenire, dall’eternità alla temporalità. E come nasce la temporalità? La risposta di Plotino è assai ingegnosa. La temporalità nasce dalla attività stessa con cui l’Anima crea il mondo fisico (ossia qualcosa che è altro dall’Intellegibile, che è, invece, nella dimensione dell’eterno). L’Anima, colta da «desiderio di trasferire in un diverso la visione di lassù», non paga di veder tutto “simultaneamente”, esce dall’unità, avanza e si distende in un prolungamento e in una serie di atti che si succedono l’un l’altro e pone così in successione di prima e di poi ciò che nella sfera dello Spirito è simultaneo. L’Anima crea la vita come temporalità, come copia della vita dello Spirito che è nella dimensione dell’eternità. E la vita come [pag.414] temporalità è vita che scorre in momenti successivi, e che, quindi, è costantemente rivolta a momenti sempre ulteriori ed è sempre carica dei momenti trascorsi. In questa visione, nascere e morire non diventano altro che il mobile gioco dell’anima che riflette le sue forme come in uno specchio, un gioco in cui nulla perisce e tutto si conserva «perché nulla può venir cancellato dall’essere».
    Il cosmo fisico, se giudicato nella giusta ottica, è perfetto. Esso è, infatti, una copia che imita un modello e non è il modello. Ma, come immagine, esso risulta la più bella immagine dell’originale. Il cosmo stesso, del resto, come tutte le ipostasi del mondo soprasensibile, «esiste per Lui e guarda lassù». La spiritualizzazione del cosmo è spinta da Plotino ai limiti dell’acosmismo: la materia è forma infima, il corpo è forma, il mondo mobile gioco di forme, la forma è agganciata alle Idee dello Spirito e lo Spirito all’Uno.

    ◗ Natura e destino dell’uomo


    L’uomo è fondamentalmente la sua anima e tutte le attività della vita dell’uomo dipendono da essa che è impassibile e capace solo di agire. La stessa sensazione è, per Plotino, un atto conoscitivo dell’anima. Infatti, quando sentiamo, il nostro corpo patisce un’affezione da parte di un altro corpo; invece la nostra anima entra in azione, non solo nel senso che “non le sfugge” l’affezione corporea, ma, addirittura, nel senso che essa “giudica” le affezioni. Anzi, per Plotino, nell’impressione sensoriale che si produce negli organi corporei, l’anima vede (sia pure a livello più debole e illanguidito) l’orma di forme intellegibili e, dunque, la stessa sensazione è, per l’anima, una forma di contemplazione dell’intellegibile nel sensibile.
    Del resto, questo non è che un corollario che scaturisce dalla concezione plotiniana del mondo fisico, secondo cui i corpi sono prodotti dai logoi, ossia dalle forme razionali dell’Anima dell’universo (che sono un riflesso delle Idee), e a esse in ultima analisi si riducono, cosicché le sensazioni non risultano, in un certo senso, altro che “pensieri oscuri”, mentre i pensieri degli intellegibili sono “sensazioni chiare”.
    Anzi, la sensazione è possibile in quanto l’anima inferiore che sente è connessa all’Anima superiore che ha percezione degli intellegibili puri (la platonica anamnesi) e il sentire dell’anima inferiore coglie le forme sensibili come irraggiandole con una luce che promana da lei e che le proviene appunto da quell’originario possesso che l’Anima superiore ha delle forme.
    Anche la memoria, i sentimenti, le passioni e le volizioni e tutto quanto è legato a essi vengono da Plotino interpretati, così come la sensazione, come attività dell’anima.
    L’attività più alta dell’anima consiste nella libertà, che è strettamente legata all’immaterialità. La libertà, secondo Plotino, non può consistere nell’attività pratica, ossia nell’agire esteriore, ma nella virtù e soprattutto nella più alta virtù e in particolar modo nel pensiero e nella contemplazione. La libertà si identifica con la volizione del Bene. Mentre la libertà dell’Uno è libertà di autoporsi come Bene assoluto, la libertà dello Spirito è il rimanere stretto indissolubilmente al Bene, la libertà dell’Anima consiste nel tendere al Bene, tramite lo Spirito, a diversi livelli.
    I destini dell’anima consistono nel ricongiungimento al divino. Plotino riprende l’escatologia platonica, ma egli sostiene che anche su questa terra è possibile realizzare il distacco dal corporeo e il ricongiungimento all’Uno. Già i filosofi dell’età ellenistica avevano molto insistito sul fatto che la piena felicità può essere fruita su questa terra, perfino fra i tormenti fisici. Plotino ribadisce fermamente questo concetto, ma rileva che l’essere felice anche fra i tormenti fisici, nel “toro di Falaride” (ossia fra le torture), è possibile perché in noi c’è una componente trascendente che può unirci al divino mentre il corpo soffre. Quello che era stato il supremo ideale dell’età ellenistica resta così messo a nudo nella sua illusorietà, se perseguito sul piano della pura immanenza: solo con un saldo aggancio alla trascendenza è possibile quello che invano l’età ellenistica aveva ricercato in opposte direzioni. [pag.415]

    ◗ Il ritorno all’Assoluto e l’estasi


    Le vie del ritorno all’Assoluto sono molteplici: quella della virtù, quella che corrisponde all’erotica platonica, quella della dialettica. Ma a queste tradizionali Plotino ne aggiunge una quarta: quella della “semplificazione”, che è “riunione all’Uno” ed “estasi” (unio mystica).
    In effetti, le ipostasi derivano dall’Uno per una sorta di differenziazione e alterità ontologica, alle quali si aggiungono nell’uomo anche le alterità morali. Il ricongiungimento all’Uno ha luogo mediante l’eliminazione di ogni differenziazione e alterità, ossia in una sorta di semplificazione. Ciò è possibile perché l’alterità non è nell’ipostasi dell’Uno. Nell’uomo, invece, l’alterità è presente e spogliarsi di essa significa per lui lasciare il mondo sensibile e corporeo, rientrare in se medesimo, nella propria anima; poi spogliarsi della parte affettiva di questa; quindi della parola e della ragione discorsiva, e infine «immergersi nella contemplazione di Lui».
    La frase che riassume in maniera icastica il processo di purificazione totale dell’anima che vuole unirsi all’Uno suona così: «Spogliati di tutto». Ma, in questo contesto, spogliarsi di tutto non significa impoverire o annullare se stessi, al contrario, significa accrescersi, riempirsi di Dio, del Tutto, dell’Infinito.
    Questa unificazione con l’Uno è denominata da Plotino, almeno in un passo, estasi. L’estasi plotiniana non è uno stato di incoscienza, ma di ipercoscienza; non qualcosa di irrazionale o iporazionale, bensì di iper-razionale. Nell’estasi l’anima vede se stessa riempita di Uno.
    Che la dottrina dell’estasi sia stata diffusa in ambiente alessandrino da Filone_Ebreo è indubitabile. Tuttavia è da rilevare che, mentre Filone, in spirito biblico, intendeva l’estasi come grazia, ossia come “dono gratuito” di Dio, in armonia con il biblico concetto che è Dio che fa dono di sé e delle cose da Lui create all’uomo, Plotino la reinserisce in una visione che si mantiene agganciata alle categorie del pensiero greco: Dio non fa dono di sé agli uomini, ma gli uomini possono salire a Lui e a Lui riunirsi per la loro forza e capacità naturale, purché lo vogliano.
    [pag.416]

    ◗ Originalità del pensiero plotiniano


    In tutta la “processione” metafisica il momento principale da cui nasce l’“ipostasi”, ossia il momento creante, coincide, come si è visto, con la contemplazione.
    La stessa attività pratica, perfino nel suo grado più basso, cerca “con un giro smarrito” di conquistare la contemplazione. Infatti chi si dedica all’azione quale finalità vuole raggiungere? «Non certo quella di non conoscere, ma quella, invece, di conoscere quel dato oggetto, di contemplarlo ».
    Insomma, per Plotino la spirituale attività del vedere e del contemplare si trasforma in creare. E la contemplazione è metafisico silenzio. In questo contesto, il ritorno all’Uno avviene mediante l’estasi che è semplificazione e “contemplazione” in cui soggetto contemplante e oggetto contemplato si fondono. È la famosa «fuga del solo verso il Solo» con cui si chiudono le Enneadi.

    2.Sviluppi del Neoplatonismo e fine della filosofia antico-pagana

    ◗ Le Scuole neoplatoniche


    Per completare il panorama generale della filosofia pagana del periodo tardo-antico, possiamo tracciare il seguente quadro generale.
    Prima Scuola di Alessandria fondata da Ammonio_Sacca, probabilmente intorno al 200 d.C. e fiorita nel corso della prima metà del III secolo d.C. I membri più famosi di questa scuola, come già sappiamo, furono Erennio, Origene_il_Pagano e Plotino, oltre al celebre letterato Longino (probabilmente anche Origene_il_Cristiano fu uditore di Ammonio).
    Scuola fondata da Plotino a Roma nel 244 d.C. e fiorita nel corso della seconda metà del III secolo. I membri più significativi di questa scuola furono Amelio e Porfirio (233/234-305 d.C.), quest’ultimo svolse la sua attività anche in Sicilia.
    Scuola di Siria, fondata da Giamblico (nato fra il 250 e il 240 d.C. e morto intorno al 325 d.C.), poco dopo il 300 e fiorita nel corso dei primi decenni del IV secolo d.C.
    Scuola di Pergamo, fondata da Edesio, discepolo di Giamblico, poco dopo la morte di quest’ultimo. Fra gli esponenti di questa scuola ricorderemo soprattutto l’imperatore Giuliano detto l’Apostata e il suo collaboratore Sallustio. La dissoluzione della Scuola si può far coincidere con la morte di Giuliano (363 d.C.).
    Scuola di Atene, fondata da Plutarco di Atene fra la fine del secolo IV e gli inizi del V d.C. e consolidata da Siriano. Proclo fu l’esponente più insigne. Altri rappresentanti di rilievo furono Damascio e Simplicio. La scuola venne chiusa in seguito a un editto di Giustiniano del 529 d.C.
    Seconda Scuola di Alessandria, fra i cui esponenti sono da annoverare Ipazia, Sinesio di Cirene, Ierocle di Alessandria. Questa scuola nacque, o meglio rinacque, contemporaneamente alla Scuola di Atene e sopravvisse fino agli inizi del VII secolo d.C. Per quanto concerne le tendenze di queste scuole è opportuno distinguerne quattro.
    Plotino con la sua scuola (come forse anche Ammonio con il suo circolo) rappresenta la tendenza metafisico-speculativa pura. Egli, infatti, mantenne ben distinta la sua filosofia [pag.417] sia dalla religione “positiva” sia dalle pratiche magico-teurgiche e la sua stessa religiosità fu di carattere squisitamente filosofico. Anche gli immediati seguaci di Plotino, pur mostrando alcuni cedimenti, non riuscirono a trasformare, se non in modo parziale e non sostanziale, l’impostazione del maestro, come vedremo.

    La Scuola di Giamblico e quella di Atene rappresentarono, invece, una sintesi – o, se si preferisce, una combinazione – fra la tendenza filosofica e quella mistico-religioso-teurgica: il Neoplatonismo, oltre che speculazione filosofica, divenne fondazione e difesa apologetica della religione politeistica e sussunse le pratiche magico-teurgiche come complemento, se non addirittura come coronamento, della filosofia.
    La Scuola di Pergamo rappresentò un momento di accentuata involuzione religioso-teurgica e di netto scadimento della componente filosofico-speculativa.
    La seconda Scuola di Alessandria ebbe carattere prevalentemente erudito e tese alla semplificazione del Neoplatonismo. La sua importanza storica e filosofica è dovuta soprattutto ai commentari ad Aristotele prodotti dalla Scuola di Ammonio figlio di Ermia (Asclepio, Olimpiodoro, Davide, Stefano) in parte pervenutici. Come abbiamo già detto, questi autori leggevano Aristotele come preparazione introduttiva a Platone.
    Fra tutti gli esponenti della Scuola neoplatonica Proclo è l’unico che spicca in maniera decisa. Va tuttavia rilevata l’importanza, soprattutto storica, di Porfirio e poi di Giamblico, cui risale la responsabilità del nuovo corso filosofico-teurgico del Neoplatonismo.
    Porfirio sembra aver cercato di innovare Plotino soprattutto nella metafisica. Infatti dagli studi più recenti sembra che egli abbia posto al vertice della gerarchia una enneade, ossia tre ipostasi, caratterizzate ciascuna da una triade, forse influenzato dagli Oracoli Caldaici.
    Molto più innanzi si spinse Giamblico, che sembra addirittura abbia sdoppiato l’Uno in un Primo e in un Secondo Uno. Inoltre, egli divise l’ipostasi plotiniana dello Spirito in un piano dell’“intellegibile”, suddiviso in una triade, e in un piano dell’“intellettuale”, ulteriormente distinto in maniera triadica. Fra questi due piani è possibile che egli già abbia introdotto il piano dell’intellegibile-e-intellettuale, ulteriormente diviso in triadi. E in una triade distinse anche l’ipostasi dell’Anima. Queste ipostasi erano presentate, oltre che sotto l’aspetto metafisico, anche sotto l’aspetto religioso e considerate dei, in modo da poter giustificare razionalmente il politeismo.
    Su questa via delle distinzioni ipostatiche proseguono i neoplatonici da Teodoro di Asine, discepolo di Giamblico, a Proclo e Damascio, in cui questa tendenza tocca il culmine. [pag.418]

    ◗ Proclo l’ultima voce originale dell’antichità pagana


    Proclo nacque a Costantinopoli nel 410 e morì nel 485 d.C. Della sua ricca produzione molto ci è pervenuto. Segnaliamo i commentari ad alcuni dialoghi platonici e specialmente la Teologia platonica e gli Elementi di teologia. Non ci soffermiamo sulla complessa sistemazione del mondo intellegibile con tutte le divisioni e suddivisioni triadiche, perché non sta in questo la grandezza di Proclo. Egli si distinse infatti nell’approfondimento delle leggi che governano la processione della realtà, ossia proprio nell’approfondimento di quell’argomento che, come abbiamo visto, segnava il punto più alto raggiunto dal Neoplatonismo. In primo luogo, è da segnalare la perfetta determinazione raggiunta da Proclo della legge ontologica che governa la generazione di tutte le cose, intesa come un processo circolare costituito da tre momenti:
    1) la manenza (moné), ossia il rimanere o il permanere in sé del principio;
    2) la processione (próodos) o l’uscire dal principio;
    3) il ritorno o conversione (epistrophé), ossia il ricongiungersi al principio.

    Abbiamo visto che Plotino aveva già individuato questi tre momenti e che essi giocavano nel suo sistema un ruolo assai più complesso di quanto comunemente non si creda.
    Tuttavia, Proclo va oltre, portando questa legge triadica a un eccezionale livello di raffinatezza speculativa. La legge vale non solo in generale, ma anche in particolare, in quanto esprime il ritmo stesso della realtà nella sua totalità così come in tutti i suoi momenti singoli.
    L’Uno, così come ogni altra realtà che produce qualcos’altro, produce a motivo «della sua perfezione e sovrabbondanza di potere» secondo un processo triadico.
    Ogni ente produttivo rimane quale è (appunto in virtù della sua perfezione) e, a cagione di questo suo permanere immobile e indiminuibile, produce.
    La processione non è una transizione, quasi che il prodotto che ne deriva sia una parte divisa del produttore, ma è il risultato della moltiplicazione che il produttore fa di se medesimo in virtù della sua propria potenza. Inoltre, ciò che procede è simile a ciò da cui procede e la somiglianza è anteriore alla dissomiglianza: la dissomiglianza consiste solo nell’essere il produttore migliore, ossia più potente del prodotto.
    • Di conseguenza, le cose derivate hanno una strutturale affinità con le loro cause; inoltre aspirano a tenersi in contatto con esse e, quindi, a “ritornare” a loro. Le ipostasi nascono, dunque, per via di somiglianza e non per via di dissomiglianza.
    Il processo triadico va pensato come se fosse un circolo; non, però, nel senso della successione dei momenti, quasi che fra manenza, processione e ritorno vi sia una distinzione cronologica di prima e di poi, ma nel senso della distinzione logica e quindi della coesistenza dei momenti, in modo che ogni processo sia perenne permanere, perenne procedere, perenne ritornare. Inoltre, è da sottolineare che, stante il principio della somiglianza sopra illustrato, non solo la causa permane come causa, ma anche il prodotto, in un certo senso, permane nella causa nello stesso momento in cui procede, per il motivo che il procedere non è un “separarsi”, ossia un diventare totalmente altro.
    Una seconda legge “ternaria”, strettamente connessa a questa ora illustrata, da tempo riconosciuta, a livello di studi specializzati, come la chiave della filosofia di Proclo, da alcuni studiosi è stata ribadita e riportata in primo piano. Proclo ritiene che ogni realtà, a tutti i livelli, dall’incorporeo al corporeo, sia costituita da queste componenti essenziali:
  • il limite (peras) che corrisponde in certo senso alla forma;
  • l’illimite (ápeiron) o infinito che corrisponde in certo senso alla materia;
  • la mescolanza che è sintesi di limite e illimite (è, questa, una tesi evidentemente derivata dal Filebo e dalle dottrine non scritte di Platone).
    La legge del ternario (che consiste dunque nell’essere ogni ente costituito dal limite, dall’illimite e dalla differente mescolanza di questi) non vale solo per le ipostasi superiori, ma anche per l’anima, per gli enti matematici, per gli enti fisici; per tutto, insomma, senza eccezione. [pag.419]
    In questo contesto la materia (sensibile) viene a essere l’ultima infinitudine (o illimitatezza) e, quindi, «in un certo senso è buona» (contrariamente a quanto pensava Plotino), in quanto è l’ultima effusione dell’Uno secondo l’unitaria legge della realtà. Gli Elementi di teologia, dedicati all’illustrazione di questi principi e alle leggi generali del sistema, restano l’opera più viva di Proclo, in quanto il filosofo, scrollandosi in gran parte di dosso la preoccupazione dominante della Teologia platonica, di difendere il politeismo pagano e di fondare il pantheon metafisico capace di accogliere tutti gli dei, si concentra sull’essenziale e ci presenta un trattato metafisico di prim’ordine. È proprio questo che garantirà a quest’opera una grande fortuna anche nel Medioevo.

    ◗ La fine della filosofia antico-pagana


    La fine della filosofia antico-pagana ha una data ufficiale, ossia il 529 d.C., anno in cui Giustiniano proibì ai pagani ogni pubblico ufficio e quindi di tenere scuole e di insegnare. Ecco un significativo stralcio del Codex di Giustiniano: «Noi proibiamo che venga insegnata ogni dottrina da parte di coloro che sono affetti dalla pazzia degli empi Pagani. Perciò nessun Pagano simuli di istruire coloro che sventuratamente li frequentano, mentre, in realtà, egli non fa altro che corrompere le anime dei discepoli. Inoltre, che egli non riceva sovvenzioni pubbliche, poiché non ha alcun diritto derivante da divine scritture o da editti statali per ottenere licenza di cose di questo genere. Se qualcuno, qui [a Costantinopoli] o nelle province, risulterà colpevole di questo reato e non si affretterà a ritornare in seno alla nostra santa Chiesa, insieme alla sua famiglia, ossia insieme alla moglie e ai figli, cadrà sotto le suddette sanzioni, le sue proprietà verranno confiscate ed egli stesso verrà mandato in esilio». Questo editto è senza dubbio assai importante, ma non fa altro che sancire con un avvenimento clamoroso quello che, ormai, era una realtà prodotta da tutta una serie di precedenti avvenimenti. L’editto del 529, dunque, non fece che accelerare e stabilire, di diritto, quella fine cui, di fatto, la filosofia antico-pagana era, già di per sé, inesorabilmente destinata.