il permanente sostegno che regge tutte le cose (la sostanza, diremmo con termine posteriore).
In breve, il principio può essere definito come ciò da cui vengono, ciò a cui vanno a finire, ciò per cui sono e sussistono tutte le cose.
Questo principio dai primi filosofi (se non già da Talete) è stato denominato col termine physis, che indica la natura, non nel senso moderno della parola, ma nell’originario senso di realtà prima e fondamentale.
Fisici o naturalisti sono stati quindi denominati quei filosofi che, a partire da Talete fino al V secolo a.C., indagarono intorno alla physis.
Pertanto, solamente riguadagnando l’arcaica [pag.31] accezione del termine, e cogliendone adeguatamente la peculiarità che la differenzia dall’accezione moderna, è possibile intendere l’orizzonte spirituale di questi primi pensatori.
Resta ancora da chiarire il senso dell’identificazione del principio con l’acqua e le sue implicanze.
La tradizione indiretta dice che Talete ha desunto questa sua convinzione «dalla constatazione che il nutrimento di tutte le cose è umido» e che i semi e i germi di tutte le cose «hanno natura umida», e quindi che il totale disseccamento è la morte.
Poiché, dunque, la vita è legata all’umido e l’umido presuppone l’acqua, l’acqua è l’origine ultima della vita e di tutte le cose.
Tutto viene dall’acqua, tutto sorregge la propria vita con l’acqua, tutto finisce nell’acqua.
Alcuni, già nell’antichità, avevano cercato di ridurre la portata di queste affermazioni di Talete, richiamando come antecedenti le affermazioni di coloro (ad esempio Omero e altri) che posero Oceano e Teti rispettivamente padre e madre delle cose, e avevano altresì richiamato la credenza secondo cui gli dei giuravano sullo Stige (che è il fiume degli Inferi, e quindi acqua) e avevano rilevato che ciò su cui si giura è appunto ciò che è primo e supremo (il principio).
Ma la differenza fra la posizione di Talete e queste ultime è nettissima.
Talete basa le sue asserzioni sul puro ragionamento, sul logos; presenta una forma di conoscenza motivata con precise argomentazioni razionali e non più con rappresentazioni desunte dall’immaginazione.
Del resto, a quale livello di razionalità si fosse già elevato Talete, in generale così come in particolare, è dimostrato dal fatto che egli aveva indagato i fenomeni del cielo al punto da predire (fra lo stupore dei concittadini) una eclisse (forse quella del 585 a.C.).
Al suo nome è legato anche un celebre teorema di geometria.
Ma non si deve credere che l’acqua di Talete sia l’elemento fisico-chimico che beviamo: essa va pensata in maniera totalizzante, ossia come quell’originaria physis liquida da cui tutto deriva e di cui l’acqua che beviamo è una delle tante manifestazioni.
Talete è un “naturalista” nel senso antico del termine e non un “materialista” nel senso moderno e contemporaneo.
Infatti, la sua acqua coincideva con il divino.
Si introduce, in tal modo, una nuova concezione di Dio in cui predomina la ragione e che è destinata, come tale, a eliminare ben presto tutti gli dei del politeismo fantastico-poetico dei Greci.
E quando Talete affermava che «tutto è pieno di dei», intendeva che tutto è pervaso dal principio originario.
E poiché il principio originario è vita, tutto è vivo e tutto ha [pag.32] un’anima (panpsichismo).
L’esempio del magnete che attira il ferro era da lui addotto come prova dell’universale animazione delle cose (la forza del magnete è la manifestazione della sua anima, della sua vita, appunto).
Con Talete il logos umano si è avviato con sicurezza sulla strada della conquista della realtà nel suo intero (il problema del principio di tutte le cose) e in alcune delle sue parti (quelle che costituiscono l’oggetto delle scienze particolari, come oggi noi le chiamiamo).
◗ Anassimandro di Mileto
Probabilmente discepolo di Talete fu Anassimandro , nato verso la fine del VII secolo a.C. e morto agli inizi della seconda metà del VI secolo.
Compose un trattato Sulla natura, di cui ci è giunto un frammento; si tratta del primo trattato filosofico dell’Occidente e del primo scritto in prosa dei Greci.
La nuova forma di composizione letteraria era resa necessaria dal fatto che il logos doveva essere libero dal vincolo del metro e del verso, per rispondere pienamente alle proprie istanze.
Più ancora di Talete, Anassimandro fu attivo nella vita politica.
Ci viene infatti riferito che addirittura «comandò la colonia migrata da Mileto ad Apollonia ».
Con Anassimandro la problematica del principio si approfondisce.
Egli ritiene che l’acqua sia già un qualcosa di derivato e che il principio (arché) sia, invece, l’infinito, ossia una natura (physis) infinita e indefinita, da cui provengono tutte le cose che sono.
Il termine usato da Anassimandro è á-peiron, che significa ciò che è privo di limiti sia esterni (ossia ciò che è spazialmente, e quindi quantitativamente infinito), sia interni (ossia ciò che è qualitativamente indeterminato).
Proprio perché quantitativamente e qualitativamente illimitato, il principio-ápeiron può dare origine a tutte le cose, delimitandosi in vari modi.
Questo principio abbraccia e circonda, governa e regge tutto, appunto perché come delimitazione e determinazione di esso tutte le cose si generano da esso, consistono e sono in esso.
Questo infinito «appare come il divino, perché è immortale e indistruttibile».
E qui Anassimandro non solo attribuisce al suo principio le prerogative che Omero e la tradizione antica attribuivano agli dei, ossia l’immortalità e il reggere e governare tutto, ma va addirittura oltre, precisando che l’immortalità del principio deve essere tale da non ammettere non solo una fine, ma neppure un inizio.
Gli antichi dei non morivano, ma nascevano.
Invece il divino di Anassimandro, così come non muore, neppure nasce.
In questo modo, come si è accennato a proposito di Talete, di colpo resta scalzata la base su cui si erano costruite le teo-gonie, ossia le genealogie degli dei nel senso voluto dalla mitologia tradizionale dei Greci.
Si comprende, in tal modo, ancora meglio quanto abbiamo già detto.
Questi primi filosofi presocratici sono “naturalisti” nel senso che non vedono il divino (il principio) come altro dal mondo, ma come l’essenza del mondo.
Tuttavia non hanno nulla a che vedere con concezioni di tipo materialistico-ateeggianti.
In Anassimandro, come in Talete, Dio diventa il Principio, mentre gli dei diventano i mondi, gli universi che, come vedremo, sono numerosi; ma, mentre il Principio divino non nasce né perisce, i divini universi, invece, nascono e periscono ciclicamente.
Talete non si era posto la domanda circa il come e il perché dal principio derivino tutte le cose, e perché tutte le cose si corrompano.
Anassimandro, al contrario, a tale quesito risponde che la causa dell’origine delle cose è una sorta di “ingiustizia”, mentre la causa della corruzione e della morte è una sorta di “espiazione” di tale ingiustizia.
Anassimandro, probabilmente, pensava al fatto che il mondo è costituito da una serie di contrari e che questi tendono a sopraffarsi l’un l’altro (caldo e freddo, secco e umido, ecc.).
L’ingiustizia consisterebbe appunto in questa sopraffazione.
Il tempo è visto come giudice, in quanto esso assegna un limite a ciascuno dei contrari, ponendo termine al predominio dell’uno a favore dell’altro e viceversa.
Ma è chiaro che non solo la vicenda alterna dei contrari è ingiustizia, ma è ingiustizia lo stesso esserci dei contrari, perché per ciascuno di essi il nascere implica [pag.33] immediatamente un contrapporsi all’altro contrario.
E, poiché il mondo nasce dalla scissione dei contrari, in ciò va vista la prima ingiustizia, che dovrà essere espiata con la morte (la fine) del mondo stesso, che, poi, ancora rinasce secondo determinati cicli di tempo, all’infinito.
C’è quindi, come qualche studioso ha acutamente rilevato, una doppia ingiustizia, e, di conseguenza, una doppia necessità di espiazione: da una parte, l’essere nato dal mondo attraverso la scissione in opposti dell’unità del principio; «dall’altra il tentativo, che dopo la scissione compie ognuno degli opposti, di usurpare, in odio all’altro, la condizione di unico superstite e dominatore, che sarebbe nel tempo stesso un usurpare il posto e i diritti del divino immortale e indistruttibile» (R.Mondolfo).
Come molti studiosi hanno notato, sembra innegabile in questa visione una infiltrazione di concezioni religiose di sapore orfico.
Nell’Orfismo, infatti, l’idea di una colpa originaria e dell’espiazione della medesima, e quindi della giustizia equilibratrice, è centrale.
Come infinito è il principio, così infiniti sono i mondi che si generano dal principio, sia nel senso che questo non è che uno degli innumerevoli mondi del tutto simile a quelli che l’hanno preceduto, e che lo seguiranno (dato che ciascun mondo ha una nascita, una vita e una morte), sia nel senso che coesiste contemporaneamente a una serie infinita di altri mondi (e tutti quanti nascono e muoiono in maniera analoga).
Il cosmo
Ecco come viene spiegata la genesi del cosmo.
Da un movimento, che è eterno, si generarono i primi due fondamentali contrari: il freddo e il caldo.
Il freddo, originariamente di natura liquida, sarebbe stato in parte trasformato dal fuoco-caldo, che formava la sfera periferica, in aria.
La sfera del fuoco si sarebbe spezzata in tre, originando le sfere del sole, della luna e degli astri.
L’elemento liquido, invece, si sarebbe raccolto nella cavità della terra costituendo i mari.
La terra, immaginata come avente forma cilindrica, «resta sospesa senza essere tenuta da nulla, ma rimane ferma a causa dell’uguale distanza da tutte le parti», ossia per una sorta di equilibrio di forze.
Dall’elemento liquido, sotto l’azione del sole, nacquero i primi animali, di struttura elementare, da cui, via via, si sarebbero sviluppati gli animali più complessi.
A una lettura superficiale queste teorie potrebbero sembrare puerili: in realtà, come da tempo gli studiosi hanno rilevato, esse sono potentemente anticipatrici.
Si pensi, ad esempio, all’arditezza della rappresentazione della terra che non ha più bisogno di un sostegno materiale (ancora per Talete essa “galleggiava” ossia s’appoggiava sull’acqua) e che si regge per un equilibrio di forze ovvero alla “modernità” dell’idea che l’origine della vita sia avvenuta con animali acquatici e alla conseguente genesi (sia pure in maniera estremamente primitiva) dell’idea dell’evoluzione delle specie viventi.
E ciò è sufficiente a far capire quanta strada il logos abbia compiuto oltre il mito.
◗ Anassimene di Mileto
Sempre di Mileto è nativo Anassimene (VI secolo a.C.), discepolo di Anassimandro, del cui scritto Sulla natura, in sobria prosa ionica, ci sono giunti tre frammenti, oltre a testimonianze indirette.
Anassimene pensa che il principio debba, sì, essere infinito, ma che debba essere pensato come aria infinita, sostanza aerea illimitata.
E per quale motivo, per Anassimene, l’aria fosse concepita come “il divino” è ormai chiaro, sulla base di quanto abbiamo già detto a proposito dei due precedenti Milesi.
Resta invece da chiarire la ragione per cui Anassimene scelse l’aria come principio.
È evidente che egli sentiva la necessità di introdurre una realtà originaria che permettesse di dedurre tutte le cose da essa in modo più logico e razionale di quanto non avesse fatto Anassimandro .
In effetti, per la sua natura mobilissima, l’aria ben si presta (assai più dell’infinito anassimandreo) a essere concepita come in perenne movimento.
Inoltre, meglio di qualsiasi altro elemento, l’aria si presta alle variazioni e alle trasformazioni necessarie per far nascere le diverse cose.
Condensandosi si raffredda e diventa acqua e poi terra, allentandosi (ossia rarefacendosi) e dilatandosi si riscalda e diviene fuoco.
[pag.34]
La variazione quantitativa di tensione dell’originaria realtà dà quindi origine a tutte le cose.
In un certo senso Anassimene rappresenta l’espressione più rigorosa e più logica del pensiero della Scuola di Mileto , perché con il processo di “condensazione” e “rarefazione” introduce quella causa dinamica di cui Talete non aveva ancora parlato, e che Anassimandro aveva determinato solo ispirandosi a concezioni orfiche.
Anassimene fornisce, quindi, una causa in perfetta armonia con il principio.
Si capisce, quindi, perché i successivi pensatori si riferiscano ad Anassimene come al paradigma e al modello del pensiero ionico.
2.Eraclito di Efeso
Fra il VI e il V secolo a.C. visse Eraclito, a Efeso .
Scontroso di carattere e con un temperamento schivo e sdegnoso, non volle in alcun modo partecipare alla vita pubblica: «Pregato dai concittadini di dar leggi alla città – scrive una fonte antica – rifiutò, perché essa era già caduta in balia della cattiva costituzione».
Scrisse un libro intitolato Sulla natura, di cui ci sono pervenuti numerosi frammenti, forse costituito da una serie di aforismi, e volutamente composto in maniera oscura e con stile che ricorda le sentenze oracolari, «perché vi si accostassero solo quelli che lo potevano» e il volgo se ne stesse lontano.
Fece questo al fine di evitare il dispregio e la derisione di quanti, leggendo cose apparentemente facili, credono di capire ciò che invece non capiscono.
Per questo fu denominato “Eraclito l’oscuro”.
◗ Il flusso perpetuo di tutte le cose
Eraclito porta il discorso filosofico dei tre Milesi su posizioni decisamente più avanzate e apre nuovi orizzonti al pensiero filosofico.
I Milesi avevano notato l’universale dinamismo delle cose che nascono, crescono e periscono e del mondo, anzi dei mondi sottoposti allo stesso processo.
Inoltre avevano pensato il dinamismo quale caratteristica essenziale dello stesso [pag.35] principio, che genera, regge, riassorbe tutte le cose.
Tuttavia non avevano approfondito tale aspetto della realtà e le conseguenze che ciò comporta.
Ed è appunto questo che fece Eraclito.
Tutto si muove, tutto scorre (panta rhei), nulla resta immobile e fisso, tutto cambia e trasmuta senza eccezione, analogamente alla corrente di un fiume.
Il fiume è “apparentemente” sempre lo stesso, mentre “in realtà” è costituito da acque sempre nuove e diverse che sopraggiungono e si dileguano.
Perciò nella medesima acqua del fiume non si può discendere due volte, appunto perché, quando si discende la seconda volta, è ormai altra acqua che sopraggiunge; e anche perché noi stessi mutiamo e, al momento in cui abbiamo completato l’immersione nel fiume, siamo diventati diversi da quando ci siamo mossi per immergerci.
Cosicché Eraclito può ben dire che noi entriamo e non entriamo nel medesimo fiume.
E può anche dire che noi siamo e non siamo perché, per essere ciò che siamo in un determinato momento, dobbiamo non-essere-più quello che eravamo in precedenza, così come, per continuare a essere, dovremo continuamente non-essere-più quello che siamo in ciascun momento.
Questo, secondo Eraclito, vale per ogni realtà senza eccezione.
Questo è, senza dubbio, l’aspetto della dottrina di Eraclito divenuto più noto, e che alcuni suoi discepoli portarono a conseguenze estremistiche, come ad esempio Cratilo, il quale rimproverò a Eraclito di non essere stato sufficientemente rigoroso: infatti, non solo non possiamo bagnarci due volte nel medesimo fiume, ma neppure una, data la celerità del flusso (nel momento in cui incominciamo a immergerci nel fiume sopravviene già altra acqua, e noi stessi prima che si sia completata l’immersione, per quanto celere possa essere, siamo già altri, nel senso sopra chiarito).
◗ La dottrina dell’armonia dei contrari
Ma, per Eraclito, tutto ciò non è che il punto di partenza per ulteriori inferenze ancora più profonde e ardite.
Il divenire al quale tutto quanto è consegnato è caratterizzato da un continuo passare da un contrario all’altro: le cose fredde si riscaldano, le calde si raffreddano, le umide si disseccano, le secche si inumidiscono, il giovane invecchia, il vivo muore, ma da ciò che è morto rinasce altra vita giovane, e così via.
Fra i contrari che si avvicendano c’è, dunque, guerra perpetua.
Ma poiché ogni cosa ha realtà proprio e solo nel divenire, la guerra (fra gli opposti) si rivela essenziale: «La guerra è madre di tutte le cose e di tutte le cose è regina».
Ma questa guerra che è, a un tempo, pace costituisce un contrasto che è anche armonia.
Infatti lo scorrere perpetuo delle cose e il divenire universale si rivelano come armonia di contrari, ossia come perenne pacificarsi di belligeranti, conciliarsi di contendenti (e viceversa).
Questa armonia e unità degli opposti è il principio, e quindi Dio o il divino: «Il Dio è giornonotte, è inverno-estate, è guerra-pace, è sazietà-fame».
[pag..36]
Identificazione del principio con il fuoco e con l’intelligenza
Eraclito ha inoltre indicato il fuoco come principio fondamentale e ha considerato tutte le cose come sue trasformazioni.
Tale elemento esprime infatti in maniera esemplare le caratteristiche del mutamento continuo, del contrasto e dell’armonia.
Il fuoco è continuamente mobile, è vita che vive della morte del combustibile, è continua trasformazione di questo in cenere, in fumo e in vapori, è, come Eraclito dice del suo Dio, perenne «bisogno e sazietà».
Questo fuoco è come «fulmine che governa tutte le cose»; e ciò che governa tutte le cose è intelligenza, è ragione, è logos, è legge razionale.
Così, al principio di Eraclito viene associata espressamente l’idea di intelligenza, che nei Milesi risultava solo implicita.
Un frammento particolarmente significativo suggella la nuova posizione di Eraclito «L’Uno, l’unico saggio, non vuole e vuole essere chiamato Zeus».
Non vuole essere chiamato Zeus, se con Zeus si intende il Dio dalle forme umane proprio dei Greci; vuole essere chiamato Zeus, se con questo nome si intende il Dio e l’essere supremo.
In Eraclito emerge già una serie di spunti concernenti la verità e la conoscenza.
Bisogna stare in guardia nei confronti dei sensi, perché questi si fermano alle apparenze delle cose.
E così bisogna guardarsi dalle opinioni degli uomini, che sono basate sulle apparenze.
La Verità consiste nel cogliere, al di là dei sensi, quell’intelligenza che governa tutte le cose.
Di tale intelligenza, Eraclito si sentì come il profeta, donde quel carattere oracolare delle sue sentenze e il carattere ieratico del suo dire.
◗ Natura dell’anima e destini dell’uomo
Malgrado l’impostazione generale del suo pensiero che lo portava a interpretare l’anima come fuoco, e quindi a interpretare l’anima saggia come quella più secca e a far coincidere la dissennatezza con l’umidità, Eraclito scrisse una delle più belle sentenze sull’anima che ci siano pervenute: «I confini dell’anima non li potrai mai trovare, per quanto tu percorra le sue vie; così profondo è il suo logos».
Pur mantenendosi nell’ambito di un orizzonte fisico, Eraclito, con l’idea della dimensione infinita dell’anima, apre uno spiraglio verso qualcosa di non fisico.
Ma è solo uno spiraglio, per quanto geniale.
Sembra che Eraclito abbia accolto alcune idee degli orfici sulla natura umana, affermando che l’uomo è mortale-immortale, a seconda che si consideri il suo corpo o la sua anima: «Immortali- mortali, mortali-immortali, vivendo la morte di quelli, morendo la vita di quelli».
Qui forse trova espressione l’idea orfica che la vita del corpo è mortificazione dell’anima e che la morte del corpo è vita dell’anima.
E ancora con gli orfici, Eraclito credette in castighi e premi dopo la morte.
In quale modo, però, egli cercasse di mettere in connessione queste credenze orfiche con la sua filosofia della physis non possiamo stabilirlo.
[pag.37]
3.I pitagorici e il numero come principio
◗ Pitagora e i cosiddetti pitagorici
Pitagora nacque a Samo .
La tradizione colloca l’apogeo della sua vita intorno al 532-531 a.C. e la sua morte forse nei primi anni del V secolo.
Pare che da Samo Pitagora sia passato in Italia dove, nella città di Crotone, fondò una scuola il cui messaggio, che proponeva una nuova visione della vita di tipo mistico e ascetico, ebbe presto grandissimo successo e si diffuse in molte altre città dell’Italia meridionale e della Sicilia: da Sibari a Reggio, da Locri a Metaponto, da Agrigento a Catania .
La Scuola acquistò ben presto anche un notevole potere politico: l’ideale pitagorico proponeva una forma di aristocrazia basata sui nuovi ceti dediti specialmente al commercio che, come abbiamo visto, avevano raggiunto un livello elevato nelle colonie prima ancora che nella madrepatria.
Il grande successo di queste nuove idee dovette provocare una violenta rivolta dell’opposizione: si narra che i Crotoniati, temendo che Pitagora volesse diventare tiranno della città, abbiano incendiato l’edificio in cui egli era radunato insieme con i suoi discepoli, che trovarono quasi tutti la morte.
Secondo alcune fonti, anche Pitagora sarebbe morto in questa circostanza; secondo altre, invece, si sarebbe miracolosamente salvato fuggendo a Locri, per poi trasferirsi a Taranto e quindi a Metaponto, dove l’avrebbe colto la morte.
A Pitagora sono attribuiti molti scritti; ma quelli pervenutici sotto il suo nome sono falsificazioni di epoca posteriore.
È possibile che il suo insegnamento sia stato solo (o prevalentemente) orale.
Circa il pensiero originario di questo filosofo possiamo dire ben poco.
Le numerose Vite di Pitagora di epoca posteriore non sono storicamente attendibili, perché il nostro filosofo già poco dopo la sua morte (e forse già negli ultimi anni della sua vita) aveva perduto i tratti umani agli occhi dei suoi seguaci; era venerato quasi come un nume, e la sua parola aveva quasi valore di oracolo.
Già Aristotele non aveva più a disposizione elementi che gli permettessero di distinguere Pitagora dai suoi discepoli e parlava dei cosiddetti pitagorici, ossia di quei filosofi “che erano chiamati” o “che si chiamano Pitagorici”, filosofi che, fenomeno nuovo rispetto ai filosofi precedentemente citati dove ciascuno rappresentava se stesso, ricercavano la verità lavorando e studiando insieme.
Non è dunque possibile parlare del pensiero di Pitagora riferito a un personaggio singolo bensì del pensiero dei pitagorici in senso globale.
Ma questo fatto, per quanto possa sembrare strano, non è anomalo, se si tengono presenti alcune prerogative peculiari di questa Scuola.
La Scuola era nata come una sorta di [pag.38] confraternita o di ordine religioso, organizzato secondo precise regole di convivenza e di comportamento.
Il suo fine era la realizzazione di un determinato tipo di vita, e, rispetto a tale fine, la scienza e la dottrina costituivano come un mezzo: un mezzo che era come un bene comune, cui tutti attingevano e cui tutti cercavano di dare incremento.
Le dottrine erano considerate come un segreto di cui solo gli adepti dovevano venire a conoscenza e di cui era severamente vietata la diffusione.
Il primo pitagorico che pubblicò opere fu Filolao, che fu un contemporaneo di Socrate .
Riferisce una fonte antica: «Fa meraviglia il rigore del segreto dei pitagorici; infatti nel corso di tanti anni nessuno sembra che si sia imbattuto in qualche scritto di pitagorici prima dell’età di Filolao ; questi, per primo, trovandosi in grande e dura povertà, divulgò quei celebrati tre libri, che si dice fossero comperati da Dione Siracusano per incarico di Platone ».
Di conseguenza, fra la fine del VI secolo a.C. e la fine del V e gli inizi del IV secolo a.C. il Pitagorismo poté arricchire notevolmente il proprio patrimonio dottrinale, senza che noi possiamo avere elementi sicuri per operare precise distinzioni fra le dottrine originarie e quelle successive.
Poiché, tuttavia, furono sostanzialmente omogenee le basi sulle quali lavorò, è lecito considerare in blocco questa Scuola, appunto come già gli antichi hanno fatto, a cominciare da Aristotele .
◗ I numeri come principio
Con i pitagorici la ricerca filosofica passa dalle colonie ioniche di Oriente a quelle dell’Italia meridionale.
Qui, dove erano migrate le antiche tribù ioniche, la filosofia crea una temperie culturale diversa e si affina notevolmente.
Con netto mutamento di prospettiva, infatti, i pitagorici, invece che nell’acqua, nell’aria o nel fuoco, indicarono nel numero (e nei costitutivi del numero) il principio.
Il più chiaro e famoso documento che riassume il pensiero dei pitagorici è un passo di Aristotele, che di questi filosofi si è occupato molto e a fondo.
Essi furono i primi a notare che in tutte le cose esiste una regolarità matematica, ossia numerica. Fu determinante la scoperta che i suoni e la musica, alla quale i pitagorici dedicavano grande attenzione quale mezzo di purificazione e di catarsi, sono traducibili in rapporti numerici e rappresentabili per mezzo della matematica: la diversità dei suoni prodotta dai martelletti che battono sull’incudine dipende dalla diversità di peso (che è determinabile secondo un numero), la diversità dei suoni delle corde di uno strumento musicale dipende dalla diversità di lunghezza delle corde (che è analogamente determinabile secondo un numero).
I pitagorici scoprirono, inoltre, i rapporti armonici di ottava, di quinta e di quarta e le leggi numeriche che li governano (1: 2, 2: 3, 3: 4).
Non meno importante dovette essere la scoperta dell’incidenza determinante del numero nei fenomeni dell’universo: sono leggi numeriche che determinano l’anno, le stagioni, i mesi, i giorni e così di seguito.
Sono, ancora una volta, precise leggi numeriche che regolano i tempi dell’incubazione del feto negli animali, i cicli dello sviluppo biologico e i vari fenomeni della vita.
È comprensibile che, spinti dall’euforia di queste scoperte, i pitagorici fossero portati a trovare anche inesistenti corrispondenze tra fenomeni di vario genere e il numero.
Ad esempio, per alcuni pitagorici, la giustizia, in quanto ha come caratteristica quella di essere una sorta di contraccambio o di uguaglianza, era fatta coincidere con il numero 4 o con il 9 (ossia 2 × 2 o 3 × 3, il quadrato del primo numero pari o quello del primo dispari); l’intelligenza e la scienza, in quanto hanno il carattere di persistenza e immobilità, erano fatte coincidere con l’1; mentre la mobile opinione, che oscilla in opposte direzioni, era fatta coincidere con il 2, e così via.
In ogni caso rimane indiscutibile la grande importanza della loro dottrina.
Tuttavia l’uomo d’oggi ben difficilmente potrebbe comprenderne a fondo il senso, se non cercasse di recuperare il significato arcaico del “numero”.
Per noi il numero è un’astrazione mentale e quindi un ente di ragione; invece per l’antico modo di pensare (fino ad Aristotele) il numero è una cosa reale e, addirittura, la più reale delle cose, e proprio in quanto tale viene considerato il principio costitutivo delle cose, come l’acqua per Talete o l’aria per Anassimene .
[pag.39]
◗ Gli elementi da cui derivano i numeri
Tutte le cose derivano dai numeri; tuttavia i numeri non sono il primum assoluto, ma derivano essi stessi da ulteriori elementi e proprio tali elementi sono i principi primi di tutte le cose.
In effetti, i numeri risultano essere una quantità (indeterminata) che via via si determina o delimita: 2, 3, 4, 5, 6… all’infinito.
Due elementi risultano quindi costituire il numero: uno indeterminato o illimitato e uno determinante o limitante.
Il numero nasce quindi «dall’accordo di elementi limitanti e di elementi illimitati» e, a sua volta, genera tutte le altre cose.
Ma proprio in quanto generati da un elemento indeterminato e da uno determinante, i numeri manifestano una certa prevalenza dell’uno o dell’altro di questi due elementi: nei numeri pari predomina l’indeterminato (e quindi per i pitagorici i numeri pari sono meno perfetti), mentre nei dispari prevale l’elemento limitante (e perciò sono più perfetti).
Se noi, infatti, raffiguriamo un numero con dei punti geometricamente disposti (si pensi all’uso arcaico di utilizzare dei sassolini per indicare il numero e per fare operazioni, da cui è derivata l’espressione “fare i calcoli” nonché il termine calcolare, dal latino calculus che vuol dire “sassolino”), notiamo che il numero pari lascia un campo vuoto alla freccia che passa in mezzo e non trova un limite, e quindi mostra la sua difettosità (illimitatezza), mentre nel numero dispari, per contro, rimane sempre una unità in più, che delimita e determina:
Inoltre, i pitagorici considerarono il numero dispari come “maschile” e il pari come “femminile”.
Infine, i pitagorici considerarono i numeri pari come “rettangolari” e i numeri dispari come “quadrati”.
Infatti, se si dispongono attorno al numero 1 le unità costituenti i numeri dispari, si ottengono dei quadrati, mentre, se si dispongono in modo analogo le unità costituenti i numeri pari, si ottengono dei rettangoli, come dimostrano le seguenti figure, che esemplificano, la prima, i numeri 3, 5 e 7, la seconda, i numeri 2, 4, 6 e 8.
Fa eccezione l’uno che per i pitagorici non è né pari né dispari: è un parimpari, tanto è vero che da esso procedono tutti i numeri, sia pari sia dispari; aggiunto a un pari genera un dispari e aggiunto a un dispari genera un pari.
Lo zero rimase invece sconosciuto ai pitagorici e alla matematica antica.
Il numero perfetto fu identificato con il 10, che visivamente era raffigurato come un triangolo perfetto, formato dai primi quattro numeri, e avente il numero 4 per ogni lato (la tetraktys):
[pag.40]
La raffigurazione mostra che il 10 è uguale a 1 + 2 + 3 + 4.
Ma c’è di più.
Nella decade «sono contenuti egualmente il pari (quattro pari: 2, 4, 6, 8) e il dispari (quattro dispari 3, 5, 7, 9), senza che predomini una parte».
Inoltre risultano uguali i numeri primi e non composti (2, 3, 5, 7) e i numeri secondi e composti (4, 6, 8, 9).
Ancora: «Possiede uguali i multipli e sottomultipli: infatti ha tre sottomultipli fino al cinque (2, 3, 5) e tre multipli di questi, da sei a dieci (6, 8, 9)».
Inoltre «nel 10 ci sono tutti i rapporti numerici, quello dell’uguale, del meno-più, e di tutti i tipi di numero, i numeri lineari, i quadrati, i cubici.
Infatti l’1 equivale al punto, il 2 alla linea, il 3 al triangolo, il 4 alla piramide: e tutti questi numeri sono principi ed elementi primi delle realtà a essi omogenee».
Occorre tenere presente che questi computi sono congetturali e che gli interpreti sono molto divisi, in quanto non è certo che il numero 1 vada eccettuato dalle diverse serie.
Nasce così la teorizzazione del “sistema decimale” (si pensi alla tavola pitagorica) e la codificazione della concezione della perfezione del 10 che resterà operante per interi secoli: «Il numero 10 è perfetto, ed è giusto secondo natura che tutti, sia noi Greci sia gli altri uomini, ci imbattiamo in esso nel nostro numerare, anche senza volerlo».
Alcuni pitagorici cercarono inoltre di combinare insieme l’idea della decade con quella dei contrari, che abbiamo visto aver avuto grande importanza nella cosmologia ionica, e compilarono una tavola dei dieci supremi contrari che riassumeva tutte le ulteriori contrarietà, e quindi le cose determinate da queste.
Ecco la celebre tavola come ci è stata tramandata da Aristotele 1.limite - illimite | 6.fermo - mosso |
2.dispari - pari | 7.retto curvo |
3.uno - molteplice | 8.luce - tenebra |
4. destro - sinistro | 9.buono - cattivo |
5.maschio - femmina | 10.quadrato - rettangolo |
◗ Passaggio dal numero alle cose e fondazione del concetto di cosmo
Tutto questo conduce a un’ulteriore conquista fondamentale.
Se il numero è ordine («accordo di elementi illimitati e limitanti»), e se tutto è determinato dal numero, tutto è ordine.
E poiché in greco “ordine” si dice kosmos, i pitagorici chiamarono l’universo “cosmo”, ossia “ordine”.
Dicono le nostre testimonianze antiche: «Pitagora fu il primo che denominò cosmo l’insieme di tutte le cose, per l’ordine che c’è in esse».
È dei pitagorici l’idea che i cieli, ruotando, appunto secondo numero e armonia, producano «una celeste musica di sfere, bellissimi concerti, che le nostre orecchie non percepiscono, o non sanno più distinguere, perché abituatesi da sempre a sentirla».
Con i pitagorici il pensiero ha ormai compiuto un passo decisivo: il mondo ha cessato di essere dominato da oscure e indecifrabili potenze ed è diventato numero; il numero esprime ordine, razionalità e verità.
Afferma il pitagorico Filolao «Tutte le cose che si conoscono hanno numero; senza questo, nulla sarebbe possibile pensare né conoscere»; «Giammai menzogna spira verso il numero».
Con i pitagorici l’uomo ha imparato a vedere il mondo con altri occhi, ossia come l’ordine perfettamente penetrabile dalla ragione.
◗ Pitagora, l’Orfismo e la vita pitagorica
Come abbiamo visto, la scienza pitagorica era coltivata come mezzo per raggiungere un ulteriore fine che consisteva nella pratica di un tipo di vita atto a purificare e a liberare l’anima dal corpo.
Pitagora sembra essere stato il primo dei filosofi a sostenere la dottrina della metempsicosi, vale a dire quella dottrina secondo la quale l’anima, a motivo di una colpa originaria, è costretta a reincarnarsi in successive esistenze corporee (e non solo in forme d’uomo, ma altresì in forme di animali, per espiare quella colpa.
Le testimonianze antiche riferiscono, tra l’altro, che egli diceva di ricordarsi delle sue precedenti vite.
La dottrina, come sappiamo, viene dagli orfici; ma i pitagorici modificarono l’Orfismo almeno in un punto essenziale: il fine della vita è quello di liberare l’anima dal corpo, e per raggiungere tale fine occorre purificarsi.
È appunto nella scelta degli strumenti e dei mezzi di purificazione che i pitagorici si differenziano nettamente dagli orfici.
Questi non proponevano se non celebrazioni misteriche e pratiche religiose, e pertanto rimanevano legati a una mentalità magica, affidandosi quasi per intero alla potenza taumaturgica dei riti.
Invece i pitagorici additarono soprattutto nella scienza la via della purificazione, oltre che in una severa pratica morale.
La “vita pitagorica” si differenziò nettamente dalla vita orfica, appunto per il culto della scienza come mezzo di purificazione: la scienza divenne, in tal modo, il più alto dei “misteri”.
Poiché il fine ultimo era quello di tornare a vivere tra gli dei, i pitagorici introdussero il concetto del retto agire umano come un farsi “seguace di Dio”, come un vivere in comunione con la divinità.
Riferisce una testimonianza antica: «Tutto quanto i pitagorici definiscono circa il fare o non fare ha per mira la comunione con la divinità: questo è il principio, e tutta la loro vita va coordinata a questo fine di lasciarsi guidare dalla divinità».
I pitagorici furono, in tal modo, gli iniziatori di quel tipo di vita che fu chiamato (o che già essi chiamarono) bíos theoretikós, vita contemplativa ovvero vita pitagorica, cioè una vita spesa nella ricerca della verità e del bene tramite la conoscenza, che è la più alta purificazione (comunione con il divino).
Platone darà la più perfetta espressione di questo tipo di vita nel Gorgia, nel Fedone e nel Teeteto.