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1.Origini, natura e finalità del movimento sofistico

◗ Significato del termine sofista


Il termine “sofista” significa “sapiente”, “esperto del sapere”, “possessore del sapere”, ma nel linguaggio ordinario ha da tempo assunto un senso decisamente negativo. Infatti, è definito “sofista” chi, facendo uso di ragionamenti capziosi, da un lato cerca di indebolire e offuscare il vero e dall’altro tenta di rafforzare il falso, rivestendolo delle apparenze del vero. L’accezione negativa del termine si è diffusa già a partire da Socrate e dai suoi discepoli, in particolare Platone e Senofonte, e, successivamente, soprattutto da Aristotele, il quale ribadisce che «il sofista è uno smerciatore di sapienza apparente, non reale». Un altro grave capo d’accusa riguardava il fatto che i sofisti professavano la loro arte a scopo di lucro e non per amore disinteressato del sapere. Per molto tempo gli storici della filosofia hanno accettato senza riserve tali informazioni e giudizi, cosicché il movimento sofistico è stato in genere svalutato e considerato prevalentemente come un momento di grave decadenza del pensiero greco. Solo a partire dalla fine dell’Ottocento l’affinamento del metodo storiografico ha permesso di liberare i sofisti dall’antica condanna e di rivalutare il loro pensiero come un anello essenziale nella storia del pensiero filosofico.

◗ Dalla natura all’uomo


In effetti, i sofisti hanno operato una vera e propria rivoluzione spirituale, spostando l’asse della riflessione filosofica dalla physis e dal cosmo all’uomo e a ciò che concerne la vita dell’uomo come membro di una società e quindi incentrando i loro interessi su etica, politica, retorica, arte, lingua, religione, educazione, ossia su quella che oggi chiameremmo la cultura dell’uomo. Pertanto è esatto affermare che con i sofisti inizia il periodo umanistico della filosofia antica.
Questo cambio di direzione è reso possibile dall’azione congiunta di due differenti ordini di cause. Da un lato, come abbiamo visto, la filosofia della physis era venuta via via esaurendo ogni sua possibilità. Infatti, tutte le strade erano ormai state battute e, poiché il pensiero “fisico” era giunto ai propri limiti estremi, si rivelava indispensabile la ricerca di un altro obiettivo. Dall’altro lato, i fermenti sociali, economici e politici che ebbero luogo nel V secolo a.C. non solo favorirono lo svilupparsi della Sofistica ma ne furono anche a loro volta favoriti.
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◗ Mutamenti socio-politici che favorirono il nascere della Sofistica


Ricordiamo, innanzitutto, la lenta ma inesorabile crisi dell’aristocrazia, che va di pari passo con il potere sempre crescente del demos, del popolo. L’afflusso sempre più massiccio di forestieri nelle città, specie in Atene; l’ampliarsi del commercio, che, superando i limiti delle singole città portava ciascuna di esse a contatto con un mondo più ampio; il diffondersi delle esperienze e delle conoscenze di viaggiatori che portavano all’inevitabile confronto con usi, costumi e leggi totalmente differenti da quelli ellenici; tutti questi fattori contribuirono fortemente al sorgere della problematica sofistica. La crisi dell’aristocrazia comportò anche la crisi dell’antica areté, dei valori tradizionali. Il crescente affermarsi del potere del demos e l’allargamento a cerchie più vaste della possibilità di accedere al potere fecero crollare la convinzione che l’areté fosse legata alla nascita, cioè che virtuosi si nascesse, e non si diventasse, e pose in primo piano il problema di come si acquista la “virtù politica”. La rottura del ristretto cerchio della polis e la conoscenza di opposti costumi, usi e leggi dovevano costituire la premessa del relativismo, ingenerando la convinzione che ciò che era ritenuto eternamente valido fosse invece privo di valore in altri ambienti e circostanze.
I sofisti seppero cogliere in modo perfetto le istanze dell’età travagliata in cui vissero, e furono in grado di esplicitarle, dando loro forma e voce. Questo spiega perché essi riscossero tanto successo soprattutto presso i giovani: essi rispondevano ai reali bisogni del momento e offrivano a chi ormai non era più soddisfatto né dei valori tradizionali né del modo in cui erano proposti la novità che attendeva.
Tutto ciò permette di capire meglio certi aspetti dei sofisti, in particolare il loro modo di diffondere la cultura, il fare di questa diffusione una professione, il girare in varie città-stato, la loro libertà di spirito e la critica nei confronti della tradizione, che in passato furono poco apprezzati oppure negativamente giudicati.
  • È vero che i sofisti, oltre che alla ricerca del sapere come tale, mirarono a scopi pratici e che per essi era essenziale la ricerca di allievi (come non lo era per i fisici). Tuttavia è anche vero che la finalizzazione pratica delle dottrine sofistiche ha anche un aspetto altamente positivo: con i sofisti, infatti, il problema educativo e l’impegno pedagogico emergono in primo piano e assumono un nuovo significato. Essi si fanno infatti banditori dell’idea secondo la quale la “virtù” (l’areté) non dipende dalla nobiltà del sangue e dalla nascita, ma si fonda sul sapere. E così si comprende come per i sofisti l’indagine del vero fosse necessariamente legata alla diffusione del medesimo. L’idea occidentale di “educazione” basata sulla “diffusione del sapere” deve molto a essi.
  • È vero che i sofisti esigevano compensi per i loro insegnamenti. Ma ciò scandalizzava enormemente gli antichi, perché per loro il sapere era frutto di disinteressata comunione spirituale, in quanto al sapere accedevano solo gli aristocratici e i ricchi, che già in partenza avevano risolto i problemi pratici della vita, e al sapere dedicavano quello spazio di tempo “libero dalle necessità”. Ma i sofisti, invece, avevano fatto mestiere del sapere e quindi dovevano esigere un compenso per vivere e per poterlo diffondere, viaggiando di città in città. E si potranno certo biasimare alcuni sofisti, per gli abusi in cui caddero, ma non per il principio introdotto, che poi, anche se molto più tardi, divenne prassi comunemente accolta. I sofisti rompevano, così, uno schema sociale, che limitava la cultura solo a determinati ceti e offrivano la possibilità di acquisirla anche ad altri ceti.
  • I sofisti furono rimproverati di essere girovaghi e di non rispettare quell’attaccamento alla propria città, che, per il Greco di allora, era una sorta di dogma etico. Ma, visto dall’opposto punto di vista, ancora una volta questo atteggiamento risulta positivo: i sofisti compresero che gli angusti limiti della polis non avevano più ragione d’essere e si fecero portatori di istanze panelleniche, e più che cittadini di una semplice città, si sentirono cittadini dell’Ellade. E, in questo, essi seppero addirittura vedere più in là di Platone e di Aristotele, che nella città-stato continuarono a vedere il paradigma di Stato ideale.
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  • I sofisti manifestarono una notevole libertà di spirito nei confronti della tradizione, delle norme e dei comportamenti codificati e mostrarono una illimitata fiducia nelle possibilità della ragione. Per questo motivo furono chiamati gli “illuministi greci”, espressione che ben li definisce, se opportunamente circostanziata e storicizzata.

    ◗ I diversi gruppi di sofisti


    I sofisti non costituiscono affatto un blocco compatto di pensatori, perché differiscono fra loro per idee e interessi; tuttavia essi miravano ai medesimi scopi, con sforzi indipendenti e con mezzi analoghi, al fine di rispondere ad alcuni dei bisogni più sentiti in quell’epoca. Per orientarci, almeno in via preliminare, è necessario distinguere quattro gruppi di sofisti:
    • i grandi e famosi maestri della prima generazione (Protagora, Gorgia, Prodico ), che non erano affatto privi di morale, e che lo stesso Platone ritiene degni di un certo rispetto;
    • gli eristi, che portarono all’esasperazione l’aspetto formale del metodo, persero interesse per i contenuti e altresì il ritegno morale che caratterizzava i loro maestri;
    • i sofisti politici, che utilizzarono idee sofistiche in senso, diremmo oggi, “ideologico”, ossia per finalità politiche, e caddero in eccessi di vario genere, addirittura giungendo alla teorizzazione dell’immoralismo;
    • una particolare scuola di sofisti, che non si identifica con quella dei maestri della prima generazione, che si caratterizzò come naturalistica, in quanto contrapponeva la legge positiva a quella naturale, privilegiando quest’ultima e relativizzando la prima.




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    I maestri: Protagora, Gorgia, Prodico

    ◗ Protagora: l’uomo è misura di tutte le cose


    Il più famoso e celebrato dei sofisti fu Protagora , nato ad Abdera nel decennio fra il 491 e il 481 a.C. e morto verso la fine del secolo. Viaggiò per tutta la Grecia e soggiornò ad Atene più volte, dove riscosse grande successo. Fu molto apprezzato anche dai politici (Pericle gli affidò l’incarico di preparare la legislazione per la nuova colonia di Turi nel 444 a.C.). Le Antilogie sono la sua opera principale, di cui ci sono pervenute solo testimonianze.
    La proposizione basilare del pensiero di Protagora è il seguente assioma: «L’uomo è la misura di tutte le cose, di quelle che sono per ciò che sono e di quelle che non sono per ciò che non sono» (principio dell’homo mensura). La “misura” di cui parla Protagora è la “norma di giudizio” e le cose sono tutti i fatti e le esperienze in generale. L’assioma, diventato celeberrimo, è stato considerato, ed effettivamente è, quasi la magna charta del relativismo occidentale. Infatti, con questo principio Protagora intendeva negare l’esistenza di un criterio assoluto in grado di discriminare essere e non essere, vero e falso. Criterio è solamente l’uomo, il singolo uomo: «Quali le singole cose appaiono a me, tali sono per me, quali a te, tali per te». Questo vento che soffia, ad esempio, è freddo o caldo? La risposta, stando al criterio protagoreo, è questa: «Per chi ha freddo è freddo, per chi no, no». E allora, se così è, nessuno è nel falso, ma tutti sono nel vero (nel loro vero).
    Il relativismo espresso nel principio dell’homo mensura doveva trovare un adeguato approfondimento nell’opera già sopra menzionata, le Antilogie, nella quale si dimostrava che «intorno a ogni cosa ci sono due ragionamenti che si contrappongono fra di loro», cioè che intorno a ogni cosa è possibile dire e contraddire, ossia è possibile addurre ragioni che reciprocamente si annullano. E questo appunto doveva essere il nocciolo dell’insegnamento di Protagora.
    Ci viene inoltre riferito che Protagora insegnava a «rendere più forte l’argomento più debole». Il che non vuol dire che insegnasse l’ingiustizia e l’iniquità contro la giustizia e la rettitudine, ma, semplicemente, che egli insegnava i modi con cui tecnicamente e metodologicamente era possibile sorreggere e portare a vittoria l’argomento (qualunque fosse il contenuto in oggetto) che nella discussione, in date circostanze, poteva risultare più debole.
    La “virtù” che Protagora insegnava era esattamente questa “abilità” nel saper far prevalere qualsivoglia punto di vista su quello opposto. Il successo del suo insegnamento deriva dal fatto che, forti di questa abilità, i giovani ritenevano di potersi fare strada nelle assemblee, nei tribunali, nella vita politica.
    Per Protagora, dunque, tutto è relativo: non esiste un “vero” assoluto e non esistono nemmeno valori morali assoluti (“beni” assoluti). Esiste, tuttavia, qualcosa che è più utile, più conveniente, e perciò più opportuno. Il sapiente è colui che conosce questo relativo più utile, più conveniente e più opportuno e sa convincere anche gli altri a riconoscerlo e ad attuarlo.
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    Se così è, però, il relativismo protagoreo riceve una forte limitazione. Sembrerebbe infatti che, mentre l’uomo è misura e misurante rispetto alla verità e alla falsità, sia misurato rispetto all’utilità, ossia che l’utilità venga a presentarsi in qualche modo come oggettiva. Insomma: sembrerebbe che, per Protagora, il bene e il male siano, rispettivamente, l’utile e il dannoso; e che il “migliore” e il “peggiore”, siano il “più utile” e il “più dannoso”.
    Tuttavia è chiaro da quanto ci è stato tramandato che Protagora non seppe dire su quali basi e su quali fondamenti il sofista possa riconoscere tale “utile” socio-politico. Per fare ciò egli avrebbe dovuto scavare più a fondo nell’essenza dell’uomo e determinarne la natura. Ma sarà questo il compito che storicamente toccherà a Socrate.

    ◗ Gorgia: il nichilismo


    Gorgia nacque a Leontini (oggi Lentini ), in Sicilia, intorno al 485/480 a.C. e visse in perfetta salute fisica per oltre un secolo. Viaggiò per tutta la Grecia, riscuotendo larghi consensi. La sua opera filosofica più impegnata reca il titolo Sulla natura o sul non essere (l’opposto del titolo dell’opera di Melisso di Samo, Sulla natura o sull’essere).
    Mentre Protagora muove dal relativismo e su di esso fonda il metodo dell’antilogia, Gorgia muove dal nichilismo su cui costruisce l’edificio della sua retorica. Il trattato Sulla natura o sul non essere è una sorta di manifesto del nichilismo occidentale e si impernia sulle seguenti tre tesi.
  • Non esiste l’essere, ossia nulla esiste. I filosofi che hanno parlato dell’essere lo hanno determinato in modo tale da pervenire a conclusioni che si annullano a vicenda, sicché l’essere non potrà essere «né uno, né molteplice, né ingenerato, né generato» e, dunque, sarà nulla. Che nulla esista Gorgia lo prova contrapponendo fra loro le concezioni che i fisici avevano sostenuto intorno all’essere, e che sono tali da annullarsi reciprocamente. Ecco come lo Pseudo_Aristotele ci riassume questa parte dello scritto di Gorgia: «Mediante la combinazione delle dottrine sostenute da quell’altra categoria di filosofi che, nelle loro trattazioni intorno al problema degli enti sostengono, come risulta dalle loro opinioni, principi antitetici fra di loro – gli uni col dimostrare l’unità dell’ente invece che la sua molteplicità, altri la sua molteplicità invece che la sua unità, altri che essi sono ingenerati, altri ancora generati – deduce contro gli uni e contro gli altri che nulla esiste. Ne segue logicamente, egli afferma, che se esiste alcunché, non sia né uno, né molteplice, né ingenerato, né generato: nulla esisterà; infatti, se alcunché esistesse, corrisponderebbe a una di queste alternative».
  • Posto anche che l’essere esista, esso «non potrebbe essere conoscibile». Per provare questo asserto, Gorgia cercava di inficiare il principio parmenideo secondo il quale il legame fra essere e pensare è strutturalmente inscindibile: il pensiero è sempre e solo pensiero dell’essere e il non essere è impensabile. Gorgia rovescia ambedue questi capisaldi dimostrando che ci sono dei pensati (ad esempio, cocchi che corrono sul mare) che non esistono e che ci sono non-esistenti (Scilla, la Chimera) che sono pensati. Fra essere e pensiero c’è, dunque, divorzio e rottura.
  • Posto anche che sia pensabile, l’essere rimarrebbe inesprimibile. Infatti, la parola non può comunicare in maniera veritativa qualcosa che sia altro da sé: la parola esprime nient’altro che parola. «Quello che uno vede, come mai […] potrebbe esprimerlo con la parola? O come [pag.92] mai questo potrebbe divenir manifesto a chi lo ascolta, senza averlo veduto? Infatti, come neppure la vista non conosce suoni, così neppure l’udito ode i colori, ma i suoni; e certo dice, chi dice, ma non dice né un colore né una esperienza.» Così il divorzio fra essere e pensiero diventa anche divorzio fra parola, pensiero ed essere.
    Distrutta la possibilità di raggiungere una “verità” assoluta (l’alétheia), a Gorgia non parrebbe rimanere che la via dell’“opinione” (doxa). Invece viene negata anche questa, perché è considerata «la più infida delle cose». Egli cerca di battere una terza via, quella della ragione che si limita a illuminare fatti, circostanze, situazioni della vita degli uomini e delle città nella loro concretezza e nella loro situazione contingente, senza riuscire tuttavia a darne un adeguato fondamento.
    Nuova e originale è la posizione di Gorgia nei confronti della retorica. Se non esiste una verità assoluta e tutto è falso, la parola viene ad acquisire una sua autonomia, quasi sconfinata, perché non legata dai vincoli dell’essere. Nella sua indipendenza onto-veritativa diventa (o può diventare) disponibile a tutto. Ecco che Gorgia scopre, proprio a livello teoretico, quell’aspetto della parola per cui essa (a prescindere da ogni vero) può essere portatrice di persuasione, di credenza e di suggestione. La retorica è esattamente l’arte che sfrutta a fondo questo aspetto della parola e può essere definita come l’arte del persuadere che nel V secolo a.C. aveva una enorme importanza politica. L’uomo politico, allora, era detto anche “retore”.
    L’essere retori, per Gorgia, consiste dunque nell’«essere capaci di persuadere i giudici nei tribunali, i consiglieri nel Consiglio, i membri dell’Assemblea popolare nell’Assemblea, e così ogni altra riunione che si tenga fra cittadini».
    Infine Gorgia fu il primo filosofo che cercò di teorizzare quella che oggi chiameremmo la valenza “estetica” della parola e l’essenza della poesia, che egli definì come una «produzione di struggenti sentimenti».
    L’arte è dunque mozione di sentimenti, come la retorica, ma, a differenza di questa, non mira a interessi pratici, bensì all’inganno poetico (apáte) in sé e per sé (“estetica apatetica”). E tale “inganno” è evidentemente la pura “finzione poetica”. Sicché Gorgia poteva ben dire che in questa sorta di inganno prodotto dall’arte «chi inganna agisce meglio di chi non inganna, e chi è ingannato è più saggio di chi non è ingannato». Chi inganna, ossia il poeta, è migliore per la sua capacità creativa di illusioni poetiche, chi è ingannato è migliore perché capace di cogliere il messaggio di questa creatività.

    ◗ Prodico: la sinonimica


    Nativo di Ceo, intorno al 470/460 a.C., fu Prodico , le cui lezioni ottennero ad Atene grande successo. Il suo capolavoro era intitolato Horai (forse un richiamo alle dee della fecondità).
    Anche Prodico era abile nel tessere discorsi e Socrate lo ricorda scherzosamente come “suo maestro”. La tecnica che proponeva si fondava sulla sinonimia, ossia sulla distinzione dei vari sinonimi e sulla precisa determinazione delle sfumature di significato dei medesimi. Questa tecnica non mancò di esercitare benefici influssi sulla metodologia socratica, come vedremo, mirante alla ricerca del “che cos’è”, ossia dell’essenza delle cose.
    In etica fu famoso per una sua reinterpretazione, nella chiave propria della dottrina sofistica, del celebre mito raffigurante Ercole al bivio, ossia alle prese con la scelta fra la virtù e il vizio. E in questa reinterpretazione la virtù è presentata come il mezzo più idoneo per ottenere il vero “vantaggio” e il vero “utile”.
    Originale fu la sua interpretazione degli dei: essi sono la ipostatizzazione (cioè l’assolutizzazione) dell’utile e del vantaggioso: «Gli antichi considerarono dei, in virtù del vantaggio che ne derivava, il Sole, la Luna, le fonti e, in generale, tutte le forze, che giovano alla nostra vita, come, ad esempio, gli Egizi il Nilo».


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    3.Eristi e sofisti politici

    ◗ Gli eristi


    La degenerazione del metodo antilogico di Protagora condusse all’eristica ossia l’arte del contendere a parole avente come fine il contendere medesimo. Gli Eristi escogitarono tutta una serie di problemi, impostati in modo da prevedere risposte in ogni caso confutabili; dilemmi che, comunque venissero risolti, in senso affermativo o negativo, portavano a risposte sempre contraddicibili; abili giochi di concetti costruiti con termini che, a motivo della loro polivalenza semantica, portavano l’uditore sempre in posizione di scacco matto. Insomma, gli eristi escogitarono tutta quella apparecchiatura di ragionamenti capziosi e ingannevoli che vennero detti sofismi. Platone rappresenta in modo perfetto l’eristica nell’Eutidemo, mostrando tutta la sua vacuità.
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    ◗ I sofisti politici


    Dal nichilismo e dalla retorica gorgiana, nonché dalla contrapposizione fra natura e legge, derivarono invece le loro armi i cosiddetti sofisti politici. Costoro applicarono l’arte dialettica alla prassi politica e la piegarono alla conquista del potere, ponendosi in modo provocatorio contro la morale e la fede tradizionale.
    Crizia, nella seconda metà del V secolo a.C., dissacrò il concetto degli dei: li considerava infatti una sorta di spauracchio introdotto abilmente da un uomo politico particolarmente intelligente per far rispettare le leggi che, di per sé, non hanno la forza di imporsi, soprattutto in tutti quei casi in cui le cattive azioni degli uomini non sono sotto gli occhi dei custodi delle leggi.
    Trasimaco di Calcedonia, negli ultimi decenni del secolo V a.C., giunse addirittura ad affermare che «il giusto è il vantaggio del più potente». Il Callicle protagonista del Gorgia platonico, che se non è personaggio storico rispecchia tuttavia il modo di pensare dei sofisti politici, giunse invece a sostenere che è per natura giusto che il forte domini sul debole, e che lo soggioghi interamente.
    Ma, come abbiamo detto, questi non sono altro che gli esiti deteriori della Sofistica, il cui lato più autentico e positivo sarà rivelato da Socrate.

    4.La corrente naturalistica della Sofistica


    È un luogo comune l’affermazione secondo la quale i sofisti avrebbero contrapposto la “legge” alla “natura”. In realtà, questa contrapposizione non è presente né in Protagora né in Gorgia e nemmeno in Prodico, mentre compare invece in Ippia di Elide e in Antifonte, attivi verso la fine del V secolo a.C.

    ◗ Ippia di Elide


    Ippia è noto per aver proposto una forma di conoscenza enciclopedica e per aver insegnato l’arte della memoria (mnemotecnica). Fra le materie di insegnamento egli dava largo spazio alla matematica e alle scienze della natura, la cui conoscenza pensava fosse indispensabile alla buona condotta della vita che deve seguire appunto più le leggi della natura che quelle umane. La natura unisce gli uomini, mentre la legge spesso li divide. La legge viene così svalutata quando e nella misura in cui si oppone alla natura. Nasce pertanto la distinzione fra il diritto o legge di natura e il diritto positivo, posto dagli uomini. Il primo è eternamente valido, il secondo è contingente. Sono così gettate le premesse che porteranno a una totale dissacrazione delle leggi umane, che verranno considerate frutto di puro arbitrio. Ippia, però, da una tale distinzione trae più conseguenze positive che negative.
    In particolare, egli rileva come, sulla base della natura (della legge di natura), non abbiano senso le discriminazioni delle leggi positive che dividono i cittadini di una città da quelli di un’altra, oppure che dividono i cittadini all’interno di una medesima città. Nasceva, in tal modo, un ideale cosmopolita ed egualitario che, per la grecità, costituiva una novità assoluta.
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    ◗ Antifonte


    Antifonte radicalizza l’antitesi fra natura e legge, affermando con termini eleatici che la natura è la verità e la legge positiva è l’opinione e, quindi, l’una è quasi sempre in antitesi con l’altra. Egli giunge a dire, di conseguenza, che si deve seguire la legge di natura e, quando lo si possa fare impunemente, trasgredire quella degli uomini. Anche le concezioni egualitarie e cosmopolite già emerse in Ippia vengono radicalizzate da Antifonte, che giunge ad affermare addirittura la parità di tutti gli uomini, senza alcuna distinzione basata sulle origini, «poiché di natura siamo tutti assolutamente uguali, sia Greci, sia Barbari».
    L’“Illuminismo” sofistico ha qui dissolto non solo i vecchi pregiudizi di casta dell’aristocrazia e la tradizionale chiusura della polis, ma anche il più radicale pregiudizio comune a tutti i Greci circa la propria superiorità rispetto agli altri popoli: ogni cittadino di qualunque città è uguale a quello dell’altra e ogni uomo di qualsiasi classe è uguale a quello dell’altra, perché per natura tutti gli uomini sono fra loro uguali. Purtroppo Antifonte non giunge a esplicitare in che cosa consista tale uguaglianza, limitandosi a dire che tutti siamo uguali perché tutti abbiamo le stesse necessità naturali, ad esempio respiriamo con la bocca, con le narici, ecc. Ancora una volta, bisognerà attendere Socrate per trovare una risposta a questo problema.


    5. Conclusioni sulla Sofistica

    ◗ Il contributo della Sofistica


    Abbiamo visto che, sia pure in modi diversi, i sofisti hanno operato uno spostamento dell’asse dell’indagine filosofica dal cosmo all’uomo: proprio in questo spostamento sta il loro significato storico e filosofico di maggior rilievo. Essi hanno aperto la strada alla filosofia morale, anche se non hanno saputo raggiungere i fondamenti ultimi della medesima, perché non sono riusciti a determinare la natura dell’uomo in quanto tale.
    Ma anche certi aspetti della Sofistica, che a molti sono parsi eccessi puramente distruttivi, hanno un loro senso positivo. Bisognava, infatti, che certe teorie venissero distrutte, perché si [pag.96] potessero ricostruire su nuove e più solide basi, ed era necessario che certi orizzonti angusti venissero infranti, perché se ne aprissero altri più vasti. Vediamo gli esempi più significativi.
  • I naturalisti avevano criticato le vecchie concezioni antropomorfiche del Divino e lo avevano identificato con il loro principio. I sofisti avendo respinto non solo i vecchi dei, ma anche la ricerca del “principio”, si erano avviati verso la negazione del Divino. Protagora era rimasto agnostico, Gorgia con il suo nichilismo era certo andato oltre, Prodico aveva inteso gli dei come ipostatizzazione dell’utile, Crizia come l’invenzione “ideologica” di un abile politico. Certo, dopo queste critiche non si poteva tornare indietro: per pensare il Divino, occorreva cercare e trovare una sfera più alta in cui collocarlo.
  • Lo stesso dicasi per la verità. Prima del sorgere della filosofia, la verità non era distinta dalle apparenze. I naturalisti alle apparenze avevano contrapposto il logos, e solo in esso avevano riconosciuto la verità. Ma Protagora, considerando scisso il logos nei “due ragionamenti”, aveva scoperto che esso dice e contraddice; Gorgia lo aveva respinto come pensiero, salvandolo solo come magica parola, ma si era ritrovato una parola che può dire tutto e il contrario di tutto e, quindi, non può veramente esprimere nulla. Queste esperienze, come ha detto un acuto interprete dei sofisti, sono “tragiche”: e noi preciseremmo ulteriormente che si scoprono essere tragiche, appunto perché pensiero e parola hanno perduto il loro oggetto e la loro regola, hanno perduto l’essere e la verità. E la corrente naturalistica della Sofistica, che, in qualche modo, sia pure confusamente, aveva intuito tutto ciò, si era illusa di poter trovare un contenuto che fosse in qualche modo oggettivo in un enciclopedismo; ma questo enciclopedismo, in quanto tale, si era rivelato del tutto inutile. La parola e il pensiero dovevano recuperare la verità a un livello più alto.
  • Lo stesso vale per l’uomo. I sofisti avevano distrutto la vecchia immagine dell’uomo propria della poesia e della tradizione prefilosofiche, ma non avevano saputo ricostruirne una nuova. Protagora aveva inteso l’uomo prevalentemente come sensibilità e sensazione relativizzante, Gorgia come soggetto di mobile emozione, suscettibile di essere trascinato dalla retorica in tutte le direzioni; gli stessi sofisti, che si erano appellati alla natura, avevano parlato soprattutto della natura biologica e animale dell’uomo, sottintendendo e comunque sottacendo quella spirituale. L’uomo, per riconoscersi, doveva trovare una base più solida. Ora vedremo come Socrate abbia saputo finalmente trovarla.