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1.La fondazione della filosofia morale occidentale

◗ La vita di Socrate e il problema delle fonti


Socrate nacque ad Atene nel 470/469 a.C. e morì nel 399 a.C. in seguito a condanna per “empietà” (fu accusato di non credere agli dei della città e di corrompere i giovani; ma dietro tali accuse si nascondevano risentimenti di vario genere e manovre politiche). Fu figlio di uno scultore e di una levatrice. Non fondò una Scuola, come gli altri filosofi, ma tenne il suo insegnamento in luoghi pubblici (nei ginnasi, nelle pubbliche piazze), come una sorta di predicatore laico, esercitando un fascino grandissimo non solo sui giovani, ma anche su uomini di tutte le età, e questo gli procurò avversioni e inimicizie.
Sembra sempre più chiaro che nella vita di Socrate debbano essere distinte due fasi. Nella prima egli frequentò i fisici, in particolare Archelao, che, come abbiamo visto, professava una dottrina simile a quella di Diogene di Apollonia (conciliando in maniera eclettica le teorie di Anassimene e Anassagora ). Nella seconda fase, invece, risentì degli influssi della Sofistica e ne fece propri i problemi, pur polemizzando fermamente contro le soluzioni dei medesimi date dai maggiori sofisti. Se così è, non risulta strano il fatto che Aristofane, nella celebre commedia Le nuvole, rappresentata nel 423 e quindi quando Socrate aveva circa 45 anni, abbia raffigurato un maestro assai diverso da quello che ci presentano Platone e Senofonte, ricordato nell’età della vecchiaia.
Socrate non scrisse nulla, ritenendo che il suo messaggio fosse comunicabile attraverso la viva parola, attraverso il dialogo e l’“oralità dialettica”.
I discepoli hanno fissato per iscritto una serie di dottrine che sono a lui attribuibili, ma che tuttavia spesso non sono concordanti, se non addirittura contraddittorie.
Aristofane mette in caricatura un Socrate che, come abbiamo visto, non è quello dell’ultima maturità; Platone , nella maggior parte dei suoi dialoghi, idealizza il maestro e lo fa portavoce anche delle proprie dottrine, cosicché risulta difficilissimo stabilire che cosa appartenga effettivamente a Socrate e cosa, invece, costituisca il frutto di ripensamenti e rielaborazioni del discepolo.
Senofonte , nei suoi scritti socratici, presenta un Socrate in dimensioni ridotte, con tratti che a volte sconfinano addirittura nel banale (sembra impossibile che gli Ateniesi possano aver avuto motivo di mandare a morte un uomo qual è il Socrate descrittoci da Senofonte ).
Aristotele parla occasionalmente di Socrate ; tuttavia spesso le sue affermazioni sono state prese come le più oggettive. Ma Aristotele non gli fu contemporaneo. Poté documentarsi [pag.108] circa quanto riferisce, ma gli mancò il contatto diretto con il personaggio – un contatto che, nel caso di Socrate, risulta insostituibile.
Infine, i vari fondatori delle cosiddette “Scuole socratiche minori” ci hanno lasciato ben poco e questo materiale non getta luce se non su un aspetto parziale del maestro.
Stando così le cose, qualcuno ha sostenuto la tesi dell’impossibilità di ricostruire la figura “storica” e il pensiero effettivo di Socrate, e le ricerche socratiche sono cadute per alcuni lustri in seria crisi. Oggi si va facendo strada il criterio non della scelta tra le varie fonti o della combinazione eclettica delle medesime, ma quello che si può definire della “prospettiva del prima e del dopo Socrate ”. Noi constatiamo che, a partire dal momento in cui Socrate agisce in Atene, la letteratura in genere e quella filosofica in particolare registrano una serie di novità di considerevole portata, che poi resteranno, nell’ambito dello spirito della grecità, acquisizioni irreversibili e punti di riferimento costanti.
Ma c’è di più: tutte le fonti indicano in modo concorde proprio Socrate come autore di tali novità, in maniera sia esplicita sia implicita. Dunque, con un elevato grado di probabilità, noi potremmo far risalire a Socrate quelle dottrine che le nostre fonti riferiscono a Socrate e che i documenti in nostro possesso confermano essere novità che la cultura greca recepisce dal momento in cui Socrate agisce in Atene. Riletta sulla base di questi criteri, la filosofia socratica risulta aver avuto un peso tale nello svolgimento del pensiero greco, e in genere del pensiero occidentale, da essere paragonabile a una vera e propria rivoluzione spirituale.

◗ L’uomo è la sua psyché


Dopo un periodo di tempo passato ad ascoltare la parola degli ultimi naturalisti, ma senza esserne per nulla soddisfatto, Socrate concentrò definitivamente il suo interesse sulla problematica dell’uomo. naturalisti, nel cercare di risolvere il problema del principio e della physis, si sono contraddetti al punto da sostenere tutto e il contrario di tutto (l’essere è uno, l’essere è molti; niente si muove, tutto si muove; nulla si genera né si distrugge, tutto si genera e tutto si distrugge); ciò significa che essi si sono posti dei problemi insolubili per l’uomo. Socrate dunque si è concentrato sull’uomo, come i sofisti, ma, a loro differenza, ha saputo giungere al fondo della questione, tanto da ammettere, malgrado la sua generale affermazione di non sapere (di cui diremo più avanti), di essere sapiente in questa materia.
I naturalisti hanno cercato di rispondere al problema di quali siano la natura e la realtà ultima delle cose, Socrate cerca invece di rispondere a questa domanda: “Che cos’è la natura e la realtà ultima dell’uomo?”, “Che cos’è l’essenza dell’uomo?”. La risposta è, finalmente, precisa e inequivoca: l’uomo è la sua anima, dal momento che è appunto la sua anima a contraddistinguerlo in maniera specifica da qualunque altra cosa. E per “anima” Socrate intende la ragione e la sede dell’attività pensante ed eticamente operante. In breve: l’anima è per Socrate l’io consapevole, ossia la coscienza e la personalità intellettuale e morale. A seguito di questa sua scoperta, come è stato giustamente rilevato, Socrate ha dato il via alla tradizione morale e intellettuale sulla quale l’Europa si è spiritualmente costruita. E uno dei maggiori storici del [pag.110] pensiero greco ha ulteriormente precisato: «La parola anima, per noi, in grazia delle correnti spirituali attraverso cui è passata per la storia, suona sempre con un accento etico e religioso; come le parole servizio di Dio e cura d’anime (pure usate da Socrate) essa suona cristiana. Ma questo alto significato, essa lo ha preso per la prima volta nella predicazione protrettica di Socrate » (W. Jaeger ).
Se l’essenza dell’uomo è l’anima, curare se stessi significa allora curare non il proprio corpo bensì la propria anima, e insegnare agli uomini la cura della propria anima è il compito supremo dell’educatore; appunto il compito che Socrate ritenne di aver avuto dal dio, come si legge nell’Apologia.
Uno dei ragionamenti fondamentali fatto da Socrate per provare questa tesi è il seguente. Una cosa è lo “strumento” di cui ci si avvale e un’altra è il “soggetto” che si avvale dello strumento. Ora, l’uomo si avvale del proprio corpo come di uno strumento, il che significa che sono cose distinte il soggetto che è l’uomo e lo strumento che è il corpo. Alla domanda, quindi, “che cos’è l’uomo”, non si potrà rispondere che è il suo corpo, bensì che è “ciò che si serve del corpo”. Ma la «psyché, l’anima [cioè l’intelligenza] è ciò che si serve del corpo», cosicché la conclusione è inevitabile: «L’anima ci ordina di conoscere chi ci ammonisce: “Conosci te stesso”». E a tal punto di consapevolezza e di riflessione critica Socrate aveva portato questa sua dottrina da giungere addirittura a dedurre tutte le conseguenze che logicamente ne scaturiscono, come ora vedremo.

2.Il grande messaggio dell’etica socratica e la teologia


I Greci chiamavano areté quello che noi oggi chiamiamo virtù, intendendo con questo termine ciò che rende una cosa buona e perfetta in ciò che è; o, meglio ancora: areté indica quell’attività o modo di essere che perfeziona ciascuna cosa facendola essere ciò che deve essere. (I Greci parlavano, quindi, anche di una virtù propria dei vari strumenti, degli animali, ecc.; ad esempio, la “virtù” del cane è quella di essere buon guardiano, quella del cavallo di correre veloce, e così via). La “virtù” dell’uomo non potrà essere, di conseguenza, se non ciò che fa sì che l’anima sia quale per sua natura deve essere, ossia buona e perfetta. E tale è, secondo Socrate, la “scienza” o “conoscenza”, mentre il “vizio” sarà la privazione di scienza e di conoscenza, vale a dire l’“ignoranza”. Socrate, in tal modo, opera una rivoluzione della tradizionale tavola dei valori. I valori veri non sono quelli legati alle cose esteriori, come la ricchezza, la potenza, la fama, e nemmeno quelli legati al corpo, come la vita, la vigoria, la salute fisica e la bellezza, ma solamente i valori dell’anima che si assommano tutti quanti nella “conoscenza”. Questo, beninteso, significa non che tutti i valori tradizionali siano da considerare disvalori, bensì, semplicemente, che “per se stessi non hanno valore”. Diventano valori solo se sono usati come la “conoscenza” esige, ossia in funzione dell’anima e della sua areté; per se stessi, né gli uni né gli altri hanno valore.

◗ I paradossi dell’etica socratica


La tesi socratica sopra illustrata implicava due conseguenze che sono state subito considerate come dei “paradossi”, ma che sono assai importanti e vanno perciò opportunamente chiarificate.

Queste due proposizioni riassumono quello che è stato denominato “intellettualismo [pag.111] socratico”, in quanto riducono il bene morale a un fatto di conoscenza, dato che non è ritenuto possibile conoscere il bene e non farlo. L’intellettualismo socratico ha influenzato tutto il pensiero dei Greci, al punto da diventare quasi un minimo comune denominatore di qualunque sistema nell’età classica come in quella ellenistica. Pur nel loro eccesso, le due proposizioni sopra enunciate contengono alcune istanze molto importanti.
In primo luogo, è da rilevare la potente carica sintetica della prima proposizione. Infatti l’opinione comune dei Greci prima di Socrate (compresa quella dei sofisti, che pure pretendevano di essere “maestri di virtù”) considerava le diverse virtù come una pluralità (una cosa è la “giustizia”, un’altra è la “santità”, un’altra ancora è la “saggezza”, e così via), della quale non si sapeva cogliere il nesso essenziale, ossia quel qualcosa che fa essere le diverse virtù una unità (quel qualcosa che le fa essere tutte e ciascuna, appunto, “virtù”). Per di più tutti avevano accolto le diverse virtù come qualcosa di fondato sulle abitudini, sul costume e sulle convenzioni accolte dalla società. Socrate, invece, tenta di sottoporre al dominio della ragione la vita umana e i suoi valori (così come i naturalisti avevano cercato di sottoporre al dominio della ragione il cosmo e le sue manifestazioni). E poiché, per lui, la natura stessa dell’uomo è la sua anima, ossia la ragione, e le virtù sono ciò che perfeziona e attua pienamente la natura dell’uomo, ossia la ragione, è evidente che le virtù risultano essere una forma di scienza e di conoscenza, perché sono appunto la scienza e la conoscenza a perfezionare l’anima e la ragione.
Più complesse sono le motivazioni che stanno alla base del secondo paradosso. Secondo Socrate l’uomo, per sua natura, ricerca sempre il proprio bene e, quando fa il male, in realtà non lo fa in quanto male, ma perché si aspetta di ricavarne un bene. Dire che il male è “involontario” significa che l’uomo si inganna nell’aspettarsi un bene da esso, e che, in realtà, fa un errore di calcolo: in ultima analisi sbaglia, cioè è vittima di “ignoranza”.
Ora, Socrate ha perfettamente ragione quando dice che la conoscenza è condizione necessaria per fare il bene (perché, se non conosco il bene, non lo posso fare); ma esagera quando ritiene che sia condizione, oltre che necessaria, anche sufficiente. Socrate cade, insomma, in un eccesso di razionalismo.
Per fare il bene, infatti, occorre altresì il concorso della “volontà”. Ma sulla “volontà” i filosofi greci non hanno soffermato la loro attenzione, mentre essa diventerà centrale ed essenziale nell’etica cristiana. Per Socrate, in conclusione, è impossibile dire “vedo e approvo il meglio, ma nell’agire mi attengo al peggio”, perché chi vede il meglio necessariamente anche lo fa. Di conseguenza, per Socrate, così come per quasi tutti i filosofi greci, il peccato si riduce a un “errore di calcolo”, a un “errore di ragione”, ossia all’“ignoranza” del vero bene.

◗ La scoperta del concetto di libertà


La più significativa manifestazione dell’eccellenza della psyché o ragione umana si esplica in quello che Socrate ha denominato “autodominio” (enkráteia), ossia il dominio di sé negli stati di piacere, dolore e fatica, nell’urgere delle passioni e degli impulsi: «Ogni uomo, giudicando l’autodominio la base della virtù, dovrebbe procurare di averlo». Si tratta, in sostanza, del dominio della razionalità sull’animalità, ovvero significa rendere l’anima signora del corpo e degli istinti legati al corpo. Ben si comprende, di conseguenza, come Socrate abbia espressamente identificato in ciò la libertà umana. L’uomo veramente libero è colui che sa dominare i suoi istinti; il vero schiavo è colui che non sa dominarli e ne diventa vittima. Strettamente connesso a questo concetto di autodominio e di libertà è quello di “autarchia”, vale a dire di “autonomia”. Dio non ha bisogno di nulla, e il sapiente è colui che più si avvicina a questo stato perché cerca di aver bisogno di pochissimo. Infatti al saggio che vince gli istinti ed elimina ogni cosa superflua basta la ragione per vivere felice. Come è stato giustamente rilevato, ci troviamo qui di fronte a una nuova concezione dell’eroe. L’eroe era tradizionalmente colui che era capace di vincere tutti i nemici, i pericoli, le avversità e le fatiche esterne; il nuovo eroe è invece colui che sa vincere i nemici interiori, che si annidano nel suo animo.
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◗ Un nuovo concetto di felicità


La maggior parte dei filosofi greci, a partire da Socrate, aveva presentato al mondo il proprio messaggio di felicità. In greco felicità si dice eudaimonia, che alla lettera significa l’aver avuto in sorte un demone custode buono e favorevole, che garantisce una buona sorte e una vita prospera e piacevole. I presocratici avevano interiorizzato questo concetto; già Eraclito aveva scritto che «il carattere morale è il vero demone dell’uomo e che la felicità è ben diversa dai piaceri», e Democrito aveva detto che «la felicità non si ha nei beni esteriori e l’anima è la dimora della nostra sorte».
Il discorso di Socrate approfondisce e fonda in maniera sistematica questi concetti, sulla base delle premesse che abbiamo illustrato sopra. La felicità non può venire dalle cose esteriori né dal corpo, ma solamente dall’anima, perché questa e solo questa è la sua essenza. E l’anima è felice quando è ordinata, ossia virtuosa. «Secondo me – dice Socrate – chi è virtuoso, uomo o donna che sia, è felice, l’ingiusto e malvagio è infelice.» Come la malattia e il dolore fisico sono disordine del corpo, così la salute dell’anima è l’ordine dell’anima, e questo ordine spirituale o interiore armonia è la felicità.
Se così è, secondo Socrate, l’uomo virtuoso inteso in tal senso «non può patire nulla di male, né in vita né in morte». Non in vita, perché gli altri possono danneggiargli gli averi o il corpo, ma non rovinargli l’armonia interiore e l’ordine dell’anima. Non dopo la morte, perché, se c’è un aldilà, il virtuoso avrà un premio per la sua condotta, mentre se non c’è, ha già vissuto bene nell’aldiqua e l’aldilà è come un essere nel nulla. In ogni caso, fu ferma fede di Socrate che la virtù ha già il suo vero premio in se medesima intrinsecamente, cioè essenzialmente, e che vale la pena essere virtuosi, perché la virtù stessa è già un fine. Perciò, secondo Socrate, l’uomo può essere felice in questa vita qualunque siano le circostanze in cui gli tocca vivere e a prescindere da quale sia la situazione nell’aldilà. L’uomo è il vero artefice della propria felicità o infelicità.[pag.113]

◗ La rivoluzione della non violenza


Sulle ragioni che meritarono la condanna a Socrate si è discusso moltissimo. Dal punto di vista giuridico, è chiaro che il reato imputatogli sussisteva. Egli “non credeva agli dei della città”, perché credeva in un Dio superiore, e “corrompeva i giovani”, perché insegnava loro questa dottrina. Tuttavia, essendosi difeso in tribunale strenuamente, cercando di dimostrare di essere nella verità, e non essendo riuscito a convincere i giudici, accettò la condanna e si rifiutò di fuggire dal carcere, malgrado gli amici avessero già organizzato ogni cosa per la fuga. Le sue motivazioni sono esemplari: la fuga avrebbe significato violazione del verdetto, e, quindi, violazione della legge. Le vere armi di cui l’uomo dispone sono la sua ragione e la persuasione. Se, facendo uso della ragione, l’uomo non riesce nella persuasione ai suoi obiettivi, deve rassegnarsi, perché la violenza, come tale, è cosa empia. Platone fa dire a Socrate: «Non si deve disertare, né ritirarsi, né abbandonare il proprio posto, ma, e in guerra e in tribunale e in ogni altro luogo, bisogna fare quello che la patria e la città comandano, oppure persuaderle in che consiste la giustizia: mentre far uso di violenza è cosa empia». E Senofonte scrive: «Preferì morire, rimanendo fedele alle leggi, anziché vivere violandole».

Già Solone, nel consegnare un corpus di leggi alla città di Atene, aveva proclamato ad alta voce: «Non voglio valermi della violenza della tirannide», ma della giustizia. Ma la posizione che assunse Socrate fu ancora più importante. Con lui la concezione della rivoluzione della non violenza viene, oltre che esplicitamente teorizzata, dimostrata addirittura con la propria morte, e in questo modo viene trasformata in una “conquista per il sempre”. Ancora Martin Luther King, il leader nero americano della rivoluzione della non violenza, nel suo celebre discorso del 1963 («I have a dream») si appellava proprio ai principi socratici, oltre che a quelli cristiani.

◗ La teologia socratica


Qual era la concezione di Dio che Socrate insegnava, e che offrì il pretesto ai nemici per mandarlo a morte, in quanto contraria agli “dei in cui credeva la città”? Era la concezione, indirettamente preparata dai filosofi naturalisti e culminata nel pensiero di Anassagora e di Diogene di Apollonia, del Dio-intelligenza ordinatrice. Socrate, però, affranca tale concezione dai presupposti propri di questi filosofi (soprattutto di Diogene), de-fisicizzandola e spostandola su un piano il più possibile scevro dei presupposti propri della precedente “filosofia della natura”. Su questo tema poco sappiamo da Platone, mentre Senofonte ci informa con ampiezza. Ecco il ragionamento che leggiamo nei Memorabili e che costituisce la prima prova razionale dell’esistenza di Dio che ci sia pervenuta e che offrirà la base di tutte le prove successive.
  • Ciò che non è semplice opera del caso, ma risulta costituito per raggiungere uno scopo e un fine, postula un’intelligenza che l’ha prodotto a ragion veduta; in particolare se osserviamo l’uomo, notiamo che ciascuno e tutti i suoi organi sono finalizzati in maniera che non possono essere assolutamente spiegabili come opera del caso, ma solamente come opera di una intelligenza che ha espressamente ideato questa finalizzazione.
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  • Contro questo argomento si potrebbe obiettare che, mentre gli artefici di quaggiù si vedono accanto alle loro opere, questa Intelligenza non si vede. Ma – rileva Socrate – l’obiezione non regge, perché nemmeno la nostra anima (ossia l’intelligenza) si vede, eppure nessuno osa affermare che, dal momento che l’anima non si vede, non c’è, e che noi facciamo tutto ciò che facciamo a caso (ovvero senza intelligenza).
  • Infine, secondo Socrate, è possibile stabilire, sulla base dei privilegi che l’uomo ha rispetto a tutti gli altri esseri (come ad esempio la struttura fisica più perfetta, e soprattutto il possesso dell’anima e dell’intelligenza), che l’artefice divino si è preso cura dell’uomo in una maniera del tutto particolare.
    L’argomento, come si vede, ruota intorno a questo nucleo centrale: il mondo e l’uomo sono costituiti in modo tale (ordine, finalità) che solo una causa adeguata (ordinante, finalizzante e, dunque, intelligente) ne può dare ragione. E a coloro che respingevano questo ragionamento, Socrate, con la sua ironia, faceva notare che noi abbiamo una piccola parte di tutti gli elementi che nell’universo sono presenti in gran massa e che questo nessuno osa negarlo; e, allora, come potremmo pretendere di esserci portata via, noi uomini, tutta quanta l’intelligenza che esiste, e che al di fuori di noi uomini non ci possa essere altra intelligenza? L’incongruenza logica di tale pretesa è evidente.
    Il Dio di Socrate , dunque, è intelligenza che conosce ogni cosa senza eccezione, è attività ordinatrice e Provvidenza. Una Provvidenza, tuttavia, che si occupa del mondo e degli uomini in generale, e anche dell’uomo virtuoso in particolare (per la mentalità degli antichi il simile ha comunanza con il simile e quindi Dio ha strutturale comunanza con il buono), ma non con il singolo uomo in quanto tale (e meno che mai con il malvagio). Una Provvidenza che si occupa del singolo in quanto tale si presenterà solo nel pensiero cristiano.

    ◗ Il daimónion socratico


    Fra i capi di accusa contro Socrate c’era anche l’aver introdotto “nuovi daimónia”, ossia nuove entità divine. Socrate, nell’Apologia, dice a questo proposito: «In me si verifica un qualcosa di divino e demoniaco […]: e questo qualcosa è come una voce che mi si fa sentire dentro fin [pag.115] da quando ero fanciullo, e che, allorché si fa sentire, sempre mi trattiene dal fare quello che io sono sul punto di fare, mentre non mi esorta mai a fare».
    Il daimónion socratico era, dunque, “una voce divina” che gli vietava determinate cose: egli lo interpretava come una sorta di privilegio che lo aveva salvato più volte dai pericoli o da esperienze negative.

    In primo luogo, è da rilevare che il daimónion non ha nulla a che vedere con l’ambito delle verità filosofiche. Infatti, la voce divina interiore non rivela affatto a Socrate la sapienza umana di cui egli è portatore né alcuna delle proposizioni generali o particolari della sua etica. Per Socrate i principi filosofici traggono la loro validità dal logos e non da divina rivelazione. In secondo luogo, Socrate non collega al daimónion neppure la sua scelta morale di fondo, che, pure, ritiene essere giunta da un comando divino. Al contrario, il daimónion non ordina, ma vieta. Escluso l’ambito della filosofia e della scelta etica di fondo, non resta che l’ambito degli eventi e delle azioni particolari. Ed è proprio a questo che tutti i testi a disposizione sul daimónion socratico fanno riferimento. Si tratta, quindi, di un fatto che riguarda l’individuo Socrate e gli eventi particolari della sua esistenza: era un “segno” che, come abbiamo detto, lo distoglieva dal fare cose particolari, da cui avrebbe tratto danno. La cosa dalla quale più fermamente lo distolse fu la partecipazione attiva alla vita politica. Insomma, il daimónion è qualcosa che riguarda l’eccezionale personalità di Socrate ed è da mettere sullo stesso piano di certi momenti di intensissima concentrazione, assai vicini a rapimenti estatici, in cui Socrate, come ci dicono le nostre fonti, qualche volta si immergeva. Il daimónion, pertanto, non è da porre in connessione con la filosofia di Socrate ; egli stesso tenne le due cose ben distinte e separate, e lo stesso deve fare l’interprete.

    3.Dialettica, maieutica e ironia

    ◗ Il metodo dialettico


    Anche il metodo e la dialettica di Socrate risultano legati alla sua scoperta dell’essenza dell’uomo come psyché, perché tendono in maniera perfettamente consapevole a spogliare l’anima dall’illusione del sapere e in questo modo a curarla, al fine di renderla idonea ad accogliere la verità. Pertanto le finalità del metodo socratico sono fondamentalmente di natura etica ed educativa, e solo secondariamente e mediatamente di natura logica e gnoseologica.
    Insomma: il dialogare con Socrate portava a un “esame dell’anima”, e a un rendere conto della propria vita, ossia a un “esame morale”, come ben rilevavano i contemporanei. Si legge in una testimonianza platonica: «Chiunque stia vicino a Socrate e si metta in contatto con lui a ragionare, quale che sia il soggetto preso a trattare, trascinato nelle spire del discorso, è inevitabilmente costretto ad andare innanzi, fin che non casca a rendere conto di sé, e a dire anche in che modo viva e in che modo sia vissuto, e, una volta che c’è cascato, Socrate non lo lascia più». E proprio in questo “dover rendere conto della propria vita”, che era il fine specifico del metodo dialettico, Socrate addita la vera ragione che gli costò la vita: far tacere Socrate con la morte per molti significava liberarsi dal dover “mettere a nudo la propria anima”. Ma il processo messo in moto da Socrate era ormai irreversibile e la soppressione fisica della sua persona non poteva in alcuna maniera arrestarlo.
    Ora che abbiamo stabilito la finalità del metodo socratico, dobbiamo individuarne la struttura. La dialettica di Socrate coincide con lo stesso dialogare (dia-logos) di Socrate che consta di due momenti essenziali: la confutazione e la maieutica. Nel far questo, Socrate si avvaleva della maschera del non sapere e della temutissima arma dell’ironia. Ciascuno di questi punti va ben compreso.
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    ◗ «So di non sapere»


    I sofisti più famosi si ponevano nei confronti dell’uditore nel superbo atteggiamento di chi sa tutto; al contrario Socrate, che sa di non sapere, considera l’interlocutore come qualcuno da cui ha tutto da imparare.
    Su questo non sapere socratico si è molto equivocato, fino a considerarlo l’inizio del pensiero scettico. In realtà, esso voleva essere un’affermazione di rottura:
  • nei confronti del sapere dei naturalisti, che si era rivelato vano;
  • nei confronti del sapere dei sofisti, che troppo spesso s’era rivelato mera saccenteria;
  • nei confronti del sapere dei politici e dei cultori delle varie arti, che quasi sempre si rivelava inconsistente e acritico.
    Ma c’è di più. Il significato dell’affermazione del non sapere socratico si calibra esattamente se lo si mette in relazione con il sapere di Dio oltre che con quello degli uomini. Abbiamo già visto come per Socrate Dio sia onnisciente, dal momento che la sua conoscenza si estende dall’universo all’uomo, senza restrizione di sorta. Ebbene, è proprio paragonandolo alla statura di questo sapere divino che il sapere umano si mostra in tutta la sua fragilità e pochezza. In quest’ottica non solo quell’illusorio sapere di cui abbiamo discorso prima, ma anche la stessa sapienza umana socratica risultano un non sapere.
    Del resto, nell’Apologia, è Socrate stesso che, interpretando la sentenza data dall’oracolo di Delfi secondo cui nessuno era più sapiente di Socrate, esplicita questo concetto: «Unicamente sapiente è il Dio: e questo egli volle significare nel suo oracolo, che poco vale o nulla la sapienza dell’uomo; e, dicendo Socrate sapiente, non volle, io credo, riferirsi propriamente a me Socrate, ma solo usare il mio nome come di un esempio; quasi avesse voluto dire così: “O uomini, quegli tra voi è sapientissimo il quale, come Socrate, abbia riconosciuto che in verità la sua sapienza non ha valore”».
    E la contrapposizione fra “sapere divino” e “sapere umano” era un’antitesi cara a tutta la sapienza greca, che Socrate torna quindi a ribadire.
    Infine, è da rilevare il potente effetto ironico di benefico scuotimento che il principio del non sapere provocava nei rapporti con l’uditore da cui scaturiva la scintilla del dialogo.[pag.117]

    ◗ L’ironia socratica


    L’ironia è la caratteristica peculiare della dialettica socratica, non solo dal punto di vista formale, ma altresì da quello sostanziale. In generale, ironia significa “dissimulazione”. Nel nostro caso specifico, indica il gioco scherzoso, molteplice e vario delle finzioni e degli stratagemmi messi in atto da Socrate per costringere l’interlocutore a dar conto di se medesimo.
    Insomma: lo scherzo è sempre in funzione di uno scopo serio e, dunque, è sempre metodico. Talora, nelle sue simulazioni ironiche, Socrate fingeva addirittura di accogliere come propri i metodi dell’interlocutore, specie se questi era un uomo di cultura, e in particolare un filosofo, e giocava a ingrandirli fino al limite della caricatura, per rovesciarli con la stessa logica che era loro propria fino a inchiodarli nella contraddizione.
    Ma, al di sotto delle varie maschere che via via Socrate assumeva, erano sempre visibili i tratti della maschera essenziale, quella del non sapere e dell’ignoranza: si può anzi dire che, in fondo, le policrome maschere dell’ironia socratica altro non erano che varianti di quella principale, che, con un multiforme e abilissimo gioco di dissolvenze, veniva alla fine rivelata.
    Restano ancora da chiarire i due momenti della confutazione e della maieutica che rappresentano i momenti costitutivi strutturali della dialettica socratica.

    ◗ La confutazione e la maieutica


    La confutazione (élenchos) costituiva in un certo senso la pars destruens del metodo, ossia il momento in cui Socrate portava l’interlocutore a riconoscere la propria ignoranza. Egli costringeva a definire l’argomento intorno a cui verteva l’indagine; poi scavava in vario modo nella definizione fornita, esplicitava e sottolineava le manchevolezze e le contraddizioni che implicava; esortava, quindi, a tentare una nuova definizione, e con il medesimo procedimento la criticava e la confutava; e così egli procedeva fino al momento in cui l’interlocutore si riconosceva ignorante. È evidente che sui saccenti e sui mediocri la discussione provocava irritazione o reazioni ancora peggiori. Ma nei migliori la confutazione provocava un effetto di purificazione dalle false certezze, ossia un effetto di purificazione dall’ignoranza, sicché Platone poteva scrivere a questo riguardo: «Per tutte queste cose […] noi dobbiamo affermare che la confutazione è la più grande, è la fondamentale purificazione, e chi non ne fu beneficato, si tratti pure del Gran Re, non c’è da pensarlo altrimenti che come impuro delle più gravi impurità e privo di educazione e pure brutto proprio in quelle cose in relazione alle quali conveniva fosse purificato e bello al massimo grado, uno che veramente avesse voluto essere un uomo felice».
    E così passiamo al secondo momento del metodo dialettico.


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    Per Socrate, l’anima può raggiungere la verità solo “se ne è gravida”; egli infatti, come abbiamo visto, si professava ignorante, e quindi negava recisamente di essere in grado di comunicare agli altri un sapere o, per lo meno, un sapere costituito da determinati contenuti. Ma come la donna che è gravida nel corpo ha bisogno dell’ostetrica per partorire, così il discepolo che ha l’anima gravida della verità ha bisogno di una sorta di spirituale arte ostetrica, che aiuti questa verità a venire alla luce, e questa è appunto la “maieutica” socratica.

    ◗ La fondazione della logica


    Per molto tempo si è sostenuto che Socrate, con il suo metodo, abbia scoperto i principi fondamentali della logica occidentale, ossia il concetto, l’induzione e la tecnica del ragionamento. Oggi, tuttavia, gli studiosi si mostrano molto più cauti. Socrate mise in moto quel processo che portò alla scoperta della logica e contribuì in modo determinante a questa scoperta, ma non vi giunse egli stesso in modo riflesso e sistematico.
    La domanda “che cos’è?”, con cui Socrate martellava gli interlocutori, non implicava già la conoscenza del concetto universale con tutte le conseguenze logiche che ciò presuppone. Egli infatti con quella sua domanda voleva mettere in moto tutto il processo ironico-maieutico e non giungere a definizioni logiche. Socrate ha spianato la via che doveva portare alla scoperta del concetto e della definizione e, prima ancora, alla scoperta dell’essenza platonica, e ha esercitato anche un notevole impulso in questa direzione, ma non ha stabilito quale sia la struttura del concetto e della definizione; in effetti, gli mancavano ancora molti degli strumenti necessari a questo scopo che, come abbiamo detto, risultano essere scoperte posteriori (platoniche e aristoteliche). Lo stesso rilievo vale a proposito dell’induzione, metodo che Socrate di certo largamente applicò col suo costante portare l’interlocutore dal caso particolare alla nozione generale, avvalendosi soprattutto di esempi e di analogie, ma che non individuò a livello teoretico, e che, quindi, non teorizzò in modo riflesso. Del resto l’espressione “ragionamenti induttivi” non solo non risulta socratica, ma, propriamente, nemmeno platonica: essa è tipicamente aristotelica e suppone tutte le acquisizioni degli Analitici, come vedremo più avanti.
    In conclusione, Socrate fu dotato di un formidabile ingegno logico, ma non si spinse mai a formulare consapevolmente o a elaborare a livello tecnico quelle future e importanti scoperte logiche di cui pure si possono trovare i germi nella sua dialettica.
    E così si spiegano i motivi per cui le differenti Scuole socratiche imboccarono direzioni tanto diverse: alcuni seguaci puntarono esclusivamente sulle finalità etiche, trascurando le implicanze logiche e ontologiche che invece furono sviluppate da altri, come Platone ; altri ancora svilupparono, invece, quell’aspetto dialettico che sfocia nell’Eristica.

    ◗ Conclusioni


    Il discorso socratico apportava una quantità di acquisizioni e di novità, ma lasciava una serie di problemi aperti.
  • In primo luogo, il suo discorso sull’anima, che si limitava a determinare l’opera e la funzione dell’anima medesima (l’anima è ciò per cui noi siamo buoni o cattivi), esigeva una serie di approfondimenti: se essa si serve del corpo e lo domina, vuol dire che è altro dal corpo e che ontologicamente se ne distingue. E, allora, che cos’è? Qual è il suo “essere”? Qual è la sua differenza rispetto al corpo?
  • Analogo discorso si deve fare a proposito di Dio. Socrate riesce a defisicizzarlo. Il suo Dio è ben più puro dell’aria-pensiero di Diogene di Apollonia, e, in genere, si colloca decisamente al di sopra dell’orizzonte dei fisici. Ma che cos’è questa Divina Intelligenza? In che cosa si distingue dagli elementi fisici?[pag.119]
  • Inoltre la sconfinata fiducia socratica nel sapere, nel logos in generale (e non solo nel suo contenuto particolare), riceve una scossa assai dura soprattutto negli esiti problematici della maieutica. Il logos socratico, in ultima analisi, non è in grado di far partorire ogni anima, ma solo quelle gravide. È una confessione piena di molteplici implicanze che, però, Socrate non sa e non può esplicitare: il logos e lo strumento dialogico che su di esso interamente si fonda non bastano a produrre o, quanto meno, non bastano a far riconoscere la verità e a far vivere nella verità. Al logos socratico molti hanno voltato le spalle: perché non erano “gravidi”, dice il filosofo. Ma, allora, chi feconda l’anima, chi la rende gravida? È una domanda che Socrate non s’è posto e alla quale non avrebbe potuto in ogni caso rispondere: e, a ben guardare, il cespite di questa difficoltà è quello stesso che ci presenta il comportamento dell’uomo che “vede e conosce il meglio” eppure “fa il peggio”. E se, posta in questa forma, Socrate ha creduto di aggirare la difficoltà con il suo intellettualismo, posta nell’altra forma, non ha saputo aggirarla e l’ha elusa con l’immagine della “gravidanza”, bellissima, ma per nulla risolutrice.
  • Un’ultima aporia chiarirà ancora meglio la forte tensione interna del pensiero di Socrate. Il nostro filosofo presentò il suo messaggio come valido in particolare per gli Ateniesi, e sembrò in qualche modo rinchiuderlo negli angusti limiti di una polis. Il suo non fu dunque un messaggio per la Grecità intera, meno che mai per tutta l’umanità. Condizionato, evidentemente, dalla situazione socio-politica, non sembrò accorgersi che quel messaggio non solo oltrepassava le mura di Atene, ma andava addirittura al di là dei limiti della polis greca, in senso cosmopolitico.
  • L’aver additato nell’anima l’essenza dell’uomo, nella conoscenza la vera virtù, nell’autodominio e nella libertà interiore i principi cardine dell’etica portava alla proclamazione dell’autonomia dell’individuo in quanto tale. Ma solo i socratici minori trarranno in parte tali deduzioni e solo i filosofi dell’età ellenistica le porteranno a esplicita formulazione.
    Erma bifronte si potrebbe chiamare Socrate: da un lato il suo non sapere sembra piegare alla negazione della scienza, dall’altro sembra essere via d’accesso a una autentica superiore scienza; il suo messaggio può essere letto sia come mera esortazione morale sia come apertura verso le platoniche scoperte della metafisica. Se da un lato la sua dialettica può apparire perfino sofistica ed eristica, dall’altro si costituisce come fondamento della logica scientifica; e il suo messaggio, che pare circoscritto nelle mura della polis ateniese, da un altro punto di vista si apre, in dimensioni cosmopolite, al mondo intero. In effetti, i socratici minori coglieranno una faccia dell’Erma e Platone quella opposta, come vedremo nelle pagine che seguono. Quel che è certo, però, è che del messaggio generale di Socrate è debitore l’intero Occidente.

    4.I socratici minori

    ◗ Il circolo dei socratici


    Nell’Apologia Platone fa pronunciare a Socrate la profezia secondo la quale, dopo la sua morte, gli Ateniesi non avrebbero più avuto a che fare con un solo filosofo che avrebbe chiesto loro conto della propria vita, bensì con molti filosofi, con tutti i suoi discepoli, che fino a quel momento egli aveva trattenuto.
    Diogene Laerzio, nelle sue Vite dei filosofi, fra tutti gli amici di Socrate, ne indica sette come i più rappresentativi e illustri: Senofonte, Eschine, Antistene, Aristippo, Euclide, Fedone , e il più grande di tutti: Platone . Se si eccettuano Senofonte ed Eschine, che non ebbero ingegno propriamente filosofico (il primo fu prevalentemente uno storico, il secondo un letterato), gli altri cinque furono tutti quanti fondatori di Scuole filosofiche.
    [pag.120]Il senso e la portata di ciascuna di queste cinque Scuole sono diversissimi così come diversi sono anche gli esiti cui pervennero; tuttavia ciascuno dei fondatori fu convinto di essere un autentico (se non il solo autentico) erede di Socrate. Tralasceremo, naturalmente, Senofonte ed Eschine di Sfetto, che, come abbiamo visto, non sono propriamente filosofi, per studiare invece subito Antistene, Aristippo, Euclide, Fedone e le loro Scuole “minori”; Platone, invece, grazie ai grandi risultati cui è giunta la sua speculazione, meriterà di essere trattato in un capitolo a parte.
    Del resto già gli antichi avevano nettamente differenziato Platone dagli altri discepoli di Socrate, come dimostra questa bellissima favola: «Si narra che Socrate abbia sognato di avere sulle ginocchia un piccolo cigno che subito mise ali e volò via e dolcemente cantò e che il giorno dopo, presentandosi a lui Platone come alunno, abbia detto che il piccolo cigno era appunto lui».

    ◗ Antistene e il preludio del Cinismo


    La figura di maggior rilievo fra i socratici minori fu Antistene , che visse a cavallo tra V e IV secolo a.C. Figlio di padre ateniese e di madre tracia, frequentò dapprima i sofisti, e divenne discepolo di Socrate solo in età piuttosto avanzata. Delle numerose opere attribuitegli ci è pervenuto solo qualche frammento.
    Antistene mise in rilievo soprattutto le straordinarie capacità pratico-morali di Socrate, come la capacità di bastare a se stesso, l’autodominio, la forza d’animo, la capacità di sopportare le fatiche, e limitò al minimo indispensabile gli aspetti dottrinari, opponendosi accanitamente agli sviluppi logico-metafisici che Platone aveva impresso al Socratismo.
    La logica di Antistene risulta, pertanto, alquanto riduttiva. Secondo il nostro filosofo, delle cose semplici non esiste una definizione. Noi conosciamo queste cose con la percezione e le descriviamo mediante analogie. Delle cose complesse la definizione altro non è che la descrizione degli elementi semplici di cui sono costituite. L’istruzione deve puntare sulla “ricerca dei nomi”, ossia sulla conoscenza linguistica. Di ogni cosa si può affermare solo il nome che le è proprio (ad esempio: l’uomo è uomo), e quindi si possono formulare solo giudizi tautologici (affermare l’identico dell’identico).
    Antistene fondò la sua Scuola nel ginnasio di Cinosarge (che significa “cane agile”). Forse di qui la Scuola prese il nome. Altre fonti riferiscono che Antistene era denominato “cane puro”. Diogene di Sinope, cui il Cinismo deve la sua massima fioritura, si denominò “Diogene il cane”. Ma su questo argomento dovremo tornare più avanti, quando daremo ulteriori indicazioni sulla natura e sul significato del Cinismo.

    ◗ Aristippo e la Scuola cirenaica


    Aristippo nacque a Cirene e visse all’incirca dagli ultimi decenni del secolo V alla prima metà del IV a.C. Si recò ad Atene per frequentare Socrate. Ma la vita agiata e ricca che aveva condotto a Cirene e le abitudini contratte prima di incontrare Socrate condizionarono la sua accettazione del messaggio socratico.
    In primo luogo, rimase fissa in lui la convinzione che il benessere fisico fosse il bene supremo, al punto che egli giunse a considerare il piacere il principale movente della vita. In secondo luogo, e sempre per le medesime ragioni, Aristippo assunse nei confronti del denaro un atteggiamento che, per un socratico, era assolutamente spregiudicato: egli, infatti, giunse a far pagare le proprie lezioni, al punto che gli antichi lo chiamarono senz’altro “sofista”. È difficile e anzi impossibile, stando alle testimonianze che ci sono pervenute, distinguere il pensiero di Aristippo da quello dei suoi immediati successori. La figlia Arete raccolse in Cirene l’eredità spirituale paterna e la tramandò al figlio, cui impose lo stesso nome del nonno (e [pag.121] che quindi venne denominato Aristippo il Giovane). È probabile che il nucleo essenziale della dottrina cirenaica sia stato fissato appunto attraverso la triade Aristippo il Vecchio-Arete - Aristippo il Giovane. Successivamente, la Scuola si divise in diverse correnti di scarso rilievo. I cirenaici respinsero le ricerche fisiche e ritennero superflue le stesse matematiche, che nulla hanno a che fare con il bene e con la felicità. Ridussero all’essenziale le indagini logiche. Essi furono dei fenomenisti, che ridussero la conoscenza delle cose a sensazioni, che intesero come stati soggettivi e incomunicabili intersoggettivamente. I nomi comuni sono convenzioni, giacché essi esprimono, in realtà, le affezioni che ciascun soggetto prova, le quali, come sappiamo, sono inconfrontabili con quelle degli altri.
    Di conseguenza, si comprende la radicale visione edonistica propria dei cirenaici. La felicità, per essi, sta nel piacere colto e gustato nell’istante. Il piacere è ulteriormente spiegato come una sorta di “movimento lieve”, il dolore come un “movimento violento”. La mancanza di piacere o di dolore, ossia la mancanza di movimento lieve o violento, è stasi, “simile alla situazione di chi dorme” e, dunque, non è né piacevole né dolorosa. Il piacere fisico, così come il dolore fisico, è superiore a quello psichico, tanto è vero che i malvagi sono puniti con dolori fisici. I cirenaici affermano, però, che l’uomo deve dominare i piaceri e non farsi dominare da essi. Rispetto a certe posizioni sofistiche, nei cirenaici, di socratico c’è solo il principio dell’autodominio, trasformato da dominio sulla vita dell’istinto e sulla brama del piacere ad autodominio nel piacere. Non il piacere è turpe, ma il restarne vittima; non il soddisfare le passioni è male, ma, nel soddisfarle, lasciarsi travolgere da esse; non il godimento è da condannare, ma ogni eccesso che in esso si insinui.
    La stessa virtù socratica diventa, per i cirenaici, non fine, bensì mezzo e strumento di piacere, e si riduce non ad altro se non a quell’autodominio nel piacere, di cui abbiamo detto sopra.
    Un punto merita ancora di essere rilevato, vale a dire la posizione di rottura che Aristippo assume nei confronti dell’ethos della polis. Secondo la concezione tradizionale, nella società c’è chi comanda e chi è comandato e, di conseguenza, si impostava il discorso educativo come se non esistesse alcun’altra possibilità se non di formare persone atte o a comandare o a ubbidire. Per contro Aristippo proclama l’esistenza di una terza possibilità: quella di non rinchiudersi affatto in una città, “essere forestiero dovunque” e vivere di conseguenza.
    Le successive affermazioni in senso cosmopolitico dei cirenaici si inseriscono esattamente in queste premesse, che sono, per la verità, più negative che non positive, perché la rottura degli schemi della polis avviene per ragioni di egoismo e di utilitarismo edonistico, ossia perché una partecipazione alla vita pubblica non lascia godere la vita in modo pieno.
    Rispetto alla posizione di Socrate, che pose il suo filosofare al servizio delle città e morì per restare fedele all’ethos della polis, la posizione di Aristippo e dei cirenaici non poteva essere in più stridente contrasto.

    ◗ Euclide e la Scuola megarica


    Euclide , vissuto probabilmente tra il 435 e il 365 a.C., nacque a Megara, città da cui prese il nome la sua Scuola. Il suo attaccamento a Socrate fu grandissimo: si narra infatti che, essendosi guastati i rapporti fra Megara e Atene, gli Ateniesi decretarono la pena di morte per quei Megaresi che fossero entrati in città; ciononostante, Euclide continuò a recarsi regolarmente ad Atene, nottetempo, camuffandosi con indumenti femminili.
    Euclide si mosse tra Socratismo ed Eleatismo, come le nostre scarse fonti ci riferiscono in modo abbastanza chiaro, e quindi sostenne non solo che il Bene è Intelligenza, Saggezza e Dio, come diceva Socrate, ma anche che il Bene è l’Uno, e lo concepì con i caratteri eleatici dell’assoluta identità e uguaglianza di sé con sé.
    Euclide e i successivi megarici sono noti per aver dato largo spazio all’eristica e alla dialettica, tanto che, a un certo punto, furono addirittura chiamati eristi e dialettici. Come già si è visto, per far ciò attingevano alle dottrine eleatiche; ma Socrate stesso, per la verità, si [pag.122] prestava largamente a essere utilizzato in questo senso. Probabilmente Euclide attribuì carattere di purificazione etica alla dialettica, come già Socrate, nella misura in cui la dialettica distrugge le false opinioni degli avversari, purifica dall’errore e dall’infelicità che consegue all’errore.
    I successori di Euclide, e in particolare Eubulide, Alessino, Diodoro Crono e Stilpone acquistarono fama soprattutto per le loro raffinatissime armi dialettiche, che spesso scandivano in vacui giochi di virtuosismo eristico.

    ◗ Fedone e la Scuola di Elide


    Fra i socratici minori, Fedone (cui pure Platone ha dedicato il suo dialogo più bello) fu, almeno a giudicare da quel poco che di lui ci è stato tramandato, il meno originale. Di lui ci narra Diogene Laerzio: «Fedone di Elide, degli Eupatridi, fu catturato insieme con la caduta della sua patria e fu costretto a stare in una casa di malaffare. Ma chiudendo la porta riuscì a prendere contatto con Socrate e alla fine, per incitamento di Socrate, Alcibiade e Critone e i loro amici lo riscattarono. Da allora divenne libero e si dedicò alla filosofia». Scrisse dialoghi, fra cui lo Zopiro e il Simone, che sono andati perduti. Fondò una Scuola nella nativa Elide, dopo la morte di Socrate. Le testimonianze indicano abbastanza chiaramente che egli seguì due direzioni nella sua speculazione: quella eristico-dialettica e quella etica, ma fu soprattutto in quest’ultima che si distinse.
    La Scuola di Elide ebbe breve durata. A Fedone successe Plisteno, nativo di quella stessa città. Ma già una generazione più tardi, Menedemo, proveniente dalla Scuola del megarico Stilpone, raccolse l’eredità della Scuola di Elide e la trapiantò a Eretria, imprimendole, insieme ad Asclepiade di Fliunte, una direzione analoga a quella della Scuola megarica, privilegiando in maniera decisa la direzione eristico-dialettica, pur senza dare contributi di rilievo.

    ◗ Conclusioni sui socratici minori


    Quanto siamo venuti dicendo circa i socratici fa comprendere come le varie qualifiche di “minori”, “semi-socratici”, “socratici unilaterali” siano abbastanza adeguate.
    “Minori” essi sono qualificabili, se si considerano i risultati cui sono pervenuti, soprattutto a confronto con quelli di Platone.
    “Semi-socratici” sono qualificabili perché restano, i cinici e i cirenaici, a metà sofisti, e, i megarici, a metà eleati; per giunta essi non operano fra Socrate e le altre fonti di ispirazione una vera e propria mediazione sintetica, ma rimangono oscillanti, perché non sanno dare al loro discorso un fondamento nuovo.
    “Socratici unilaterali” rimangono, perché filtrano nel loro prisma un unico raggio, per così dire, della luce sprigionata da Socrate, cioè esaltano un unico aspetto della dottrina o della figura del maestro, a danno degli altri, e quindi fatalmente lo deformano.
    Inoltre è da rilevare che nei socratici minori «l’influsso dell’Oriente, sempre controbilanciato sinora nello spirito greco dalla tendenza razionalistica, si afferma crudamente nel pensiero di Antistene, il figlio della schiava tracia, e di Aristippo, il Greco africano».
    Infine va notato che i socratici minori anticipano in nuce posizioni che si svilupperanno in età ellenistica: i cinici precorrono gli stoici, i cirenaici gli epicurei, i megarici, paradossalmente, forniranno abbondanti armi agli scettici.
    La scoperta teoretica, che discrimina gli orizzonti platonici, è quella cui abbiamo già più volte fatto riferimento, e che Platone stesso, nel Fedone, come vedremo, denominò “seconda navigazione”. Si tratta della scoperta metafisica del soprasensibile: ed è esattamente questa scoperta che, posta a base delle intuizioni socratiche, le amplificherà, arrichendole e conducendole a esiti di portata filosofica e storica del tutto eccezionali.Atene